SOLIDARIETA' ... come altro?

SOLIDARIETA' ... come altro?
Ci impegniamo senza giudicare chi non s'impegna, senza accusare chi non s'impegna, senza condannare chi non s'impegna, senza cercare perché non s'impegna, senza disimpegnarci perché altri non s'impegna. Ci impegniamo per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita, una ragione che non sia una delle tante che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore, un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte ...dalla gente pratica. Si vive una sola volta e non vogliamo essere giocati in nome di nessun piccolo interesse. (Primo Mazzolari)

indignata ... mente



QUESTO E' UN PICCOLO SPAZIO DI DENUNCIA ... DI DISSENSO ... DI SANA REAZIONE
 ... E' LO SPAZIO DEGLI "ANTICORPI" ...

 - Indignatevi!

 
Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un motivo per indignarvi. È fondamentale. Quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo forti e impegnati. Abbracciamo un'evoluzione storica e il grande corso della storia continua grazie a ciascuno di noi. (S. Hessel)





5 dicembre  2014

Discorso di Nurit Peled-Elhanan, premio Sakharov 2001,
 tenuto al parlamento europeo l’11 settembre 2014
 Grazie, signora presidente e membri della commissione dei diritti umani, per avermi invitato oggi a questa sessione straordinaria su Gaza. Io sono molto triste perchè non vedo qui qualcuno della striscia di Gaza che potrebbe testimoniare a proposito dei pogroms che hanno vissuto. Sebbene io non sia della striscia di Gaza e sebbene non possa neanche entrarci, ho visto dei bambini di Gaza feriti che saranno sempre un ricordo indimenticabile delle atrocità inflitte dal mio governo e dall’esercito pagato con le mie tasse durante i due mesi trascorsi e i 14 anni precedenti. Credo che la scelta di tenere questa sessione nella data dell’11 settembre non sia per caso. Gli americani sono riusciti, con il loro talento per la messa in scena e la  propaganda  a fare di questa giornata il simbolo del male in tutto il mondo. Ma oggi, ricordiamoci che Gaza ha subito cinquantadue 11 settembre negli ultimi due mesi e molti altri prima- Qualcuno si ricorda del giorno in cui l’olocausto di Gaza ha cominciato? O ha raggiunto il suo apogeo? Ne dubito.
I palestinesi non hanno i mezzi degli americani e degli israeliani per far conoscere e celebrare  le loro sofferenze, così come per fare dimenticare i loro crimini.
E’ per questo che io sentivo di dover venire qui e dire quello che posso nel loro nome. Vorrei col suo permesso dedicare le mie parole alle nonne e ai nonni di Gaza che ho incontrato all’ospedale Makassed e all’ospedale Saint-Josef di Gerusalemme, durante il ricovero dei loro nipoti mutilati, feriti e paraplegici, che mi hanno sorpreso per il loro coraggio, dignità, perseveranza e il modo cortese con cui mi hanno ricevuta, io, la loro nemica.

Io sono una linguista e dunque molto cosciente della potenza delle parole. So che ho appena detto olocausto. E questo lo è. Quello che c’è stato negli ultimi 12 anni a Gaza, e che ha raggiunto il suo apogeo durante il ramadam di questa estate, non è niente meno che un olocausto. Non un’operazione. Non una guerra ma una distruzione deliberata di una società vivente. Una guerra è tra due stati e due eserciti che si affrontano; ma qui c’è uno stato potente, la cui dottrina è di considerare come proprio nemico tutta una nazione, uno stato che manda il suo esercito ad operare con la sua strapotenza contro i civili di questa nazione, utilizzando una sorta di logica mafiosa; uno stato che sostiene che è lecito uccidere le donne e i bambini e le persone anziane per dare un avvertimento ai dirigenti di questa nazione nemica, e per ricordare loro chi è che comanda; uno stato che sostiene, con un messaggio ugualmente orribile, che la vita dei propri soldati vale più della vita dei bimbi del nemico- e questo con l’incoraggiamento dei capi spirituali, religiosi, politici; voi non credereste mai, signore e signori, quante auto in Israele avevano attaccato questo adesivo : “ la vita dei nostri soldati vale più della vita dei civili nemici”.
Quando l’esercito applica tutti i mezzi possibili alla distruzione costante di tutto un paese e della sua popolazione, questa non è una guerra ma un olocausto definito nei dizionari come “una distruzione totale che comporta una perdita di vita attraverso il fuoco.” Io credo che i 13 membri di questo parlamento, che hanno visitato Gaza recentemente e ne sono ritornati con  la raccomandazione di rompere ogni relazione con Israele, abbiano avuto la stessa impressione. Nei nostri dizionari la parola olocausto è connessa con quello che è successo durante il nazismo. La verità è che oggi noi abbiamo troppe forme di olocausto nel mondo in cui degli stati forti con enormi eserciti assoggettano le persone più deboli a una vita di torture e di perdite senza fine .

Nell’assalto a Gaza che si è appena compiuto, come nei precedenti, l’esercito israeliano mirava alla zona più popolata del mondo con le armi più feroci spesso illegali, che sterminano famiglie intere, causano un massimo di danni circoscritti, e non un minimo di danni collaterali come la propaganda israeliana sostiene , usando armi che tagliano i bambini in pezzi o li bruciano completamente,
Il risultato dell’attacco è:
 più di 2.000 morti, di cui 600 sono persone anziane e bambini e 200 donne, più di 20.000 handicappati, ciechi, paraplegici, e molte più lesioni cerebrali o ustionati al 100%; sono stati assassinati operatori dei media, professori universitari, medici e infermieri delle autoambulanze; 50.000 case, 200 scuole, più di 200 moschee , 17 ospedali e centri di riabilitazione distrutti deliberatamente, lasciando più di 600.000 persone nella miseria, senza casa e senza i mezzi di sussistenza e 1.800.000 persone - la totalità della popolazione della striscia di Gaza- senza praticamente più strutture di elettricità,  acqua, fognature per non ricordare le forniture di medicinali di cibo o la  privazione di libertà:  tutto questo semplicemente perché appartengono a un gruppo razziale, religioso o culturale. Questa non è una guerra. È un sociocidio, la distruzione di tutta una società- è un etnocidio, la distruzione di un gruppo etnico intero- e per i palestinesi è un olocausto. Dunque, sino a che qualcuno non trova un termine migliore che si adatta a queste atrocità, questo è il termine che io suggerisco di utilizzare con tutte le sue connotazioni di razzismo, crudeltà e soprattutto con  l’indifferenza del mondo.
Noi sappiamo che da anni la vita a Gaza è peggiore che nel peggior ghetto, e che il risanamento  e la ricostruzione è ostacolata. Gaza è senza un sistema di fognature o di elettricità o di acqua potabile da più di cinque anni, perche Israele ha distrutto le sue centrali elettriche e, a dispetto delle sue dichiarazioni, non le lascia ricostruire. Permettetemi di indirizzarvi a un eccellente sito israeliano, chiamato ACCESS che pubblica ogni settimana  i passaggi per entrare e uscire da Gaza, le restrizioni sui prodotti importati ed esportati, di contro alla disinformazione che voi ottenete dalla propaganda israeliana. Credo che abbiate visto tutti le foto dell’inverno scorso, quando gli abitanti di Gaza hanno dovuto navigare nelle loro strade che erano diventate dei ruscelli di acque nere, portando i loro bambini a scuola sulle spalle, costretti ad andare al lavoro e al mercato, sguazzando nelle acque sporche, contaminate, fangose che gli arrivavano fino alle ginocchia o alla vita; queste condizioni portano con sè ogni tipo di possibili malattie, epidemie e penurie.

Durante il raid del 2008-09 e in questo ultimo  feroce e spietato attacco- che i medici palestinesi e internazionali hanno affermato essere  il più violento e terribile che avessero mai visto nella storia dell’aggressione israeliana contro la striscia di Gaza- sono state , proprio secondo il parere di medici ed esperti, utilizzate armi sconosciute sino ad oggi. I soldati che vengono da Gaza dicono che è un laboratorio per ogni tipo di armi mortali. Ho visto bambini e adulti pieni di buchi e ferite. Una famiglia intera senza gambe, neonati ustionati,  una ragazza senza occhi. Bambini e adulti che non sono più che pezzi di carne senza vita con spine dorsali spezzate e cervelli bruciati. Ho visto una donna la cui gamba era esplosa e un ragazzo  i cui organi interni erano lacerati. Prima di venire qui ho parlato con il dr. H. Al Hassan presidente del dipartimento di chirurgia generale all’ospedale Makassed, specialista di chirurgia vascolare, che si è offerto volontario per curare i pazienti della striscia di Gaza per una settimana; questo dottore, come il dr. Mads Gilbert e il dr. Erik Fosse hanno curato i feriti della striscia da Gaza durante il raid israeliano 2008-09 e anche questa volta, hanno supposto che le ferite non abituali siano state causate dal DIME, bombe che sono proibite nelle zone sovrappopolate. Tuttavia, ha detto le bombe e il loro contenuto saranno probabilmente scomparsi nella sabbia nel momento in cui la comunità internazionale otterrà il permesso di inviare le proprie commissioni e degli osservatori per fare un inchiesta e cercarle. Sfortunatamente le ferite non guariranno cosi presto. Molti sopravissuti , dicono i medici, possono difficilmente essere guariti a ragione delle molteplici infezioni causate dai batteri che sono resistenti agli antibiotici  e per la distruzione del loro sistema immunitario. L’ospedale Makassed che io ho visitato spende quasi un mezzo milioni di dollari in farmaci ogni mese nel tentativo di curare queste persone. Non c’è dubbio che sia un affare redditizio per alcuni.

 L’anno scorso ero qui per il venticinquesimo anniversario del premio  Sakharov, abbiamo avuto una settimana molto intensa durante la quale abbiamo ascoltato tutte le commissioni e sottocommissioni per i diritti umani e per i diritti dei bambini, esperti in diritto internazionale e giudici della corte internazionale di giustizia. Ma ogni volta che io ho ricordato Israele e la Palestina, la risposta è stata  : “questo è un caso particolare”. In effetti lo è, signori e signore, e la domanda è: perchè? Perchè  in altri casi i criminali di guerra devono essere trascinati davanti ai tribunali e le vittime sono invitate a testimoniare, mentre in questo caso le vittime sono costantemente biasimate per la loro miseria e gli autori dei crimini beneficiano di una totale impunità? Perché, invece di punire i criminali di guerra che regnano su Israele e sulla Palestina, come i gansters che sono, contravvenendo a tutte le leggi e convenzioni internazionali – radendo al suolo  dei quartieri interi, uccidendo le mogli e i figli dei capi dei loro nemici e infliggendo una punizione collettiva a milioni di persone per pura vendetta, perche gli stati dell’Unione europea fanno tutto quello che possono per impedire alle vittime di sporgere denuncia contro i carnefici? Perché, invece di domandarsi che genere di educazione al razzismo trasforma delle belle ragazze ebree e dei ragazzi ebrei in assassini in uniforme, senza scrupoli, il parlamento europeo revisiona, controlla e censura il sistema educativo delle vittime, senza neanche gettare un’ occhiata a quello degli aggressori?

Permettetemi di dirvi, dato che questa è la sfera di mia competenza, che i bambini israeliani sono educati al razzismo più fondamentale e violento, i cui migliori allievi imperversano ora nelle nostre strade, moltiplicando i maltrattamenti e i colpi sino a bruciare vivo un ragazzo palestinese, incitati dai rabbini che li incoraggiano, dai ministri e dai membri del parlamento. Questo razzismo è il terreno sul quale i soldati e i piloti hanno sviluppato la convinzione che i bambini palestinesi non sono esseri umani come noi, ma un problema che deve essere eliminato. Ma questo non sembra interessare la comunità internazionale. Perché, invece di sostenere gli oppressi con mezzi di sussistenza e mezzi di protezione, invece di battersi per la loro libertà e i loro diritti fondamentali,  il mondo occidentale avanzato continua ad armare i loro occupanti, a prendere sempre più come partners i loro oppressori e dopo ogni massacro accentua la loro presenza nell’Unione europea, così che i loro rappresentanti entrano in commissioni come questa? –
 se questo non è cinismo, allora che cosa è???-

 Si dice sempre che il mondo, che significa l’Occidente, non  ha imparato la lezione dell’Olocausto e dell’ 11 settembre.. La lezione avrebbe dovuto essere mai  più, da nessuna parte, per nessuno. Ma mi pare che il mondo abbia imparato un’altra lezione importante.
Ha imparato che si può commettere un genocidio e cavarsela mentre si assassina e si stermina quelli a cui il mondo non si interessa affatto. Quando le vittime sono dei palestinesi  gli autori se la cavano e il mondo resta in silenzio.
La misera scusa utilizzata dall’Ovest e in particolare dall’Europa per non interferire, per non disciplinare l’espansione selvaggia di Israele, per non esigere la fine del suo sistema di apartheid e la sua mancanza di rispetto del diritto internazionale, è che gli europei non vogliono essere chiamati antisemiti. E’ una ben misera scusa, perché sappiamo tutti che ogni paese europeo trae profitto dall’occupazione israeliana della Palestina. Ognuno di loro. Ma non voglio parlare ai politici e agli uomini d’affari, essi non capiscono la mia lingua. Io vorrei convincere le persone di coscienza che credono veramente che la loro denuncia dei crimini israeliani contro  i palestinesi farà del male agli ebrei, ancora una volta. Dirò 2 cose a queste persone:
1)      Prima di tutto, non c’è niente di ebraico nel comportamento razzista e crudele di Israele verso i palestinesi, e criticarlo non è antisemita, anzi. I pensatori ebrei più illustri denunciano o hanno denunciato la spietata dominazione israeliana della Palestina. Albert Einstein era uno di loro. Hanna Arendt anche. Stephan Hessel era un altro. E molti eminenti rabbini ed eruditi ebrei  sono oggi in questo campo.
2)      E poi, signore e signori, non potete più permettere di utilizzare questa scusa, quando dei bambini sono massacrati; non possiamo più permetterci di preoccuparci di come la gente ci chiama, quando un olocausto imperversa.
Proprio come io non posso permettermi di aver paura delle persone che mi trattano da traditrice per aver difeso gli oppressi, anche se molti di più  sono quelli morti per essere stati chiamati traditori, che per essere stati chiamati antisemiti.
In effetti nessuno è morto per essere stato chiamato antisemita o per esserlo stato, ma dei bambini e i loro genitori e nonni stanno morendo, mentre sto parlando, perché sono chiamati palestinesi, non per un’altra ragione, proprio come gli ebrei sono stati sterminati semplicemente perché erano chiamati Ebrei. E l’Europa, che aveva girato le spalle agli ebrei allora, oggi gira le spalle ai palestinesi.

Signore e signori, voi mi avete dato il premio più prestigioso di questa istituzione, il premio Sakharov insieme al rimpianto scrittore palestinese, prof Izzat Gazzawi, il cui figlio è stato assassinato nella sua scuola da soldati israeliani, che ha passato anni nelle prigioni israeliane, senza sapere il perché, la cui voce e la cui vita sono state spente dalla brutalità dell’occupazione israeliana. Penso che sia mio dovere rendere giustizia al premio e onorare la sua memoria portando qui la mai protesta per quelli la cui voce è ridotta al silenzio o non conta né nei tribunali di Israele, né qui. In quanto insignita del premio Sakharov, il vostro, vi domando di essere coerenti con i  suoi princìpi, senza fare eccezioni.

Non dimentichiamo che l’assedio di Gaza non è stato tolto, che Israele ha già violato il cessate il fuoco  bruciando dei pescherecci, uccidendo una bimba di 5 anni, con 3 ragazzi nella riva ovest; che la colonizzazione della Palestina aumenta a dei livelli senza precedenti; che dei bambini  di 5,6,7 anni sono prelevati dalle loro case ogni giorno e ogni notte, sono incarcerati, interrogati crudelmente senza poter vedere i genitori o un avvocato; in questo momento ci sono circa 200 bambini nelle prigioni israeliane, trattati come criminali.
Quindi dovremmo tutti noi chiederci oggi in che genere di mondo vivremo dopo l’olocausto di gaza? Che genere di persone cresceranno sulle sue ceneri, che genere di persone ci risponderanno dall’altra parte del muro. E’ questo che noi vogliamo per questa bella e antica regione? Per la culla dellaciviltà?
Lascio la responsabilità della risposta nelle vostre mani

23 luglio 2014

Mi uccide
Questo silenzio
Questa comunità internazionale – che poi sarei io moltiplicata n – afasica, muta

Leggiamo, scriviamo, guardiamo.
Razzi, bombe, deturpazioni, macerie:
due parole di rammarico  e si volta pagina,  si   cambia canale.
Però ste immagini sempre mentre si mangia …

Qualche anno fa nello spot pubblicitario di una nota acqua minerale una particella di sodio
girovagava urlando: c’è nessuno?
Vorrei girare per le strade anch'io gridando
C’è nessuno?

C’è nessuno che come me senta il bisogno di strillare BASTA

Basta far finta di non capire, di usare le distanze (globali solo quando fa comodo), di girare la testa perché: tutti sti bambini mutilati non ci si fa proprio a guardarli …  Basta lasciare che sia possibile massacrarsi senza che nessuno faccia nulla.

C’è nessuno che come me senta il bisogno di gridare NO
No alla guerra. Punto.

No all’ipocrisia di leggi e diritti internazionali scritti solo come esercizi di stile
Sarò banale, basica, terra terra ma come la mia credibilità di genitore non è data dal   proclamare dei principi ma passa attraverso il mio compromettermi    anche la credibilità dei valori professati dagli organismi internazionali e dalle donne e dagli uomini che quei valori sentano propri dovrebbe includere la capacità di compromettersi.

Non basta dire: non si mettono mai le mani addosso al prossimo per nessuna ragione. Bisogna essere anche in prima persona in grado di farlo fino ad arrivare a mettersi fisicamente in mezzo ai propri figli – o chiunque arrivi alle mani – perché smetta.

In questi giorni penso spesso a quel giovane, esile, studente universitario che si mise davanti al carrarmato in piazza Tienanmen.

C’è bisogno di compromettersi.
C’è bisogno di gesti che testimonino i propri valori. Altrimenti è come non averne.

Ho letto libri – buona parte di quelli citati in questi giorni – ho letto articoli, approfondimenti, giornali.
Però non riesco a smettere di pensare che la priorità ora non sia capire esattamente l’origine del male piuttosto mettersi in gioco per testimoniarne l’insensatezza.

Mettersi davanti al carrarmato della Storia

Scendere in piazza a stendere striscioni come quello arcobaleno per dare alle coscienze una possibilità di risveglio.

Ho poche certezze.
Una delle quali è che non ci possa salvare da soli.

Non credo che israeliani e palestinesi possano da soli andare oltre le sabbie mobili dei pregiudizi reciproci, delle vendette, delle cieche assertività, delle mutilazioni delle verità e dei corpi, dell’annichilimento dell’altro in cui la storia li ha precipitati.
Nessuno potrebbe

Ci vuole tempo e prima ancora ci vuole l’impegno di tutti a compromettersi.

Mi atterrisce pensare che se oggi ad essere in guerra fosse il mio Paese   il mio destino sarebbe quello che vedo riservare ai civili mediorientali (ma anche a quanti scappino ogni giorno via mare o via terra per sopravvivere ad altre guerre): qualche dichiarazione di principio e nessun gesto concreto 

La violenza può portare a cortocircuiti tali da lasciare al buio ogni ragione ed ogni verità.

Da un parte c’è un popolo che ha scelto di usare come saluto quotidiano la parola “shalom” – pace – ma ha dimenticato che non c’è pace senza giustizia. E la giustizia passa attraverso il riconoscimento del valore di ogni persona diversa da me. Un popolo che ha subito la vergogna della cancellazione della propria umanità da un delirante nemico che dava i numeri non solo di fronte alla storia ma incidendoli sulle braccia di chi poi veniva ridotto a semplice “pezzo” di ricambio dentro un Lager.  Un popolo che sembra non accorgersi di come si possa scivolare negli stessi errori ed orrori quando al valore di un essere umano venga aggiunto anche un solo  …  ma o se.

Scrive Gideon Levy: Non c’è modo di arrivare ad una pace giusta quando il gioco consiste nella de-umanizzazione dei palestinesi. Non c’è modo di arrivare ad una giusta pace quando la demonizzazione dei palestinesi è inculcata quotidianamente nelle menti della gente.
Quelli che sono convinti che ogni palestinese è una persona sospetta e che ogni palestinese vuole “gettare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i palestinesi. La maggioranza degli Israeliani è convinta della verità di queste affermazioni. Nell’ultimo decennio, i due popoli sono stati separati gli uni dagli altri. Il giovane israeliano medio non incontrerà mai un suo coetaneo palestinese, se non durante il servizio militare (e solo se farà il servizio militare nei Territori [occupati]). Neanche il giovane palestinese medio incontra mai un suo coetaneo israeliano, se non il soldato che brontola e sbuffa ai checkpoint, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incendia i suoi alberi.  Di conseguenza, l’unico incontro tra i due popoli avviene tra gli occupanti, che sono armati e violenti, e gli occupati, che sono disperati e anche loro tendenzialmente violenti. Sono passati i tempi in cui i palestinesi lavoravano in Israele e gli israeliani facevano la spesa in Palestina. E’ passato il tempo delle relazioni quasi normali e quasi paritarie che sono esistite per pochi decenni tra i due popoli che condividono lo stesso territorio. E’ molto facile, in questa situazione, incitare e infiammare i due popoli uno contro l’altro, spargere paure e instillare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche questa è una sicura ricetta contro la pace.
Dall’altra parte c’è la scelta a lasciare ai razzi ogni parola: la prima quanto l’ultima. Parole di morte ad un nemico a cui non si può e non si vuole più dare alcun tipo di riconoscimento. Nessuno stato di Israele, nessun israeliano.
Non ci si può salvare da soli
Nella bibbia si parla di operatori di pace.
Mi ha sempre colpita questa parola: operatori.
Per avere la pace bisogna “operare”: darsi da fare. Agire.
Mi chiedo allora se - nei bilanci della Storia -  le responsabilità di chi scelga la guerra non finiscano alla fine per essere le stesse di chi abbia scelto di non agire a favore della pace.
Tutto ciò che è necessario al trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano nulla (E. Burke)
La pace   - come diceva don Tonino Bello - prima che traguardo, è cammino
Se la pace è cammino … la speranza è saper camminare gli uni per gli altri.
Saper e voler camminare per chiunque si sia fermato.

… C’è nessuno …
in questa bottiglia a forma di mondo

che abbia voglia di insegnarmi a  camminare?
(G.S.)



4 ottobre 2013

DISTANZE
Gaia Spera

Dicono: siete sud.
No, veniamo dal parallelo grande
Dall’equatore centro della terra
La pelle annerita dalla più dritta luce,
ci stacchiamo dalla metà del mondo
non dal sud
A spinta di calcagno sul tappeto di vento del Sahara
Signore del mondo ci hai fatto miserabili
e padroni delle tue immensità,
ci hai dato pure un nome per chiamarti.


Tutti davanti alla televisione,
noi,
tutti davanti a quel grande acquario con cui abbiamo  pian piano sostituito  piazze,  incontri   realtà e   barattato, in cambio di una sovrana  comodità,   odori,   vicinanze,  esperienze.
Tutti ad ascoltare,  osservare:  volti contriti, espressioni  assorte, sguardi sconvolti. Se un colpo di vento spalancasse  di botto tutte  le finestre una mesta litania di … poveracci, povera gente, che tragedia … saturerebbe  l’aria di questo “comodo” stivale.


Troppa distanza.
Distanza non misurabile dai chilometri che separano le nostre case e Lampedusa.
Ma dell’atrofia del cambiare.
Siamo dei guardoni. Passivi come ahimè sono passivi i guardoni, osceni come osceni sono i guardoni, talvolta frustrati,  depressi, perfino cinici. E soprattutto ipocriti.
Se l’immobilità può sottrarre tono ai muscoli fino a renderli inservibili. Se il buio assoluto  può compromettere   la vista. 
La passività esistenziale può privare di  umanità.
Un mondo – il nostro -  popolato da gente seduta, abituata a vivere i cambiamenti con il telecomando nelle mani,  può ancora essere in grado di capire un mondo altro – “terzo” – che  sopravvive solo muovendo  piedi, camminando, scappando, cambiando tutte le fondamenta dell’esistenza:  terra, paese, aria, lingua, cibi, tradizioni, cultura?
Può un mondo in cui ci si stressi e   deprima per la sostituzione di un capoufficio o del medico di base, un trasferimento, uno slittamento di orario, la nuova gestione o disposizione dei prodotti nel  supermercato, un bancomat fuori servizio, un figlio all’estero -  comprendere, solidarizzare o addirittura – vero cortocircuito della follia -  decidere e legiferare della vita di chi abiti in quell'altra parte di mondo in cui non si viaggia si fugge, non si fanno diete si digiuna, non si deve scegliere ospedale o clinica perché entrambi inesistenti?

Da giorni prima di vederlo
il mare era un odore,
un sudore salato, ognuno immaginava di che forma.
Sarà una mezza luna coricata, sarà come il tappeto di preghiera,
sarà come i capelli di mia madre.
Cos’era invece? Un orlo arrotolato sulla fine dell’Africa,
gli occhi pizzicati da specchietti, lacrime di accoglienza.
L’anziano accanto al fuoco tratta con i mercanti
Il prezzo per salire sul mare di nessuno

“ho visto il mare pieno di scarpette” racconta un uomo
Scarpette, merendine, cadaveri è infatti  tutto ciò che il  mare restituisce
dopo aver ingoiato   vita, il resto lo sputa.

3 ottobre 2013: sono partiti in 518. Sono sopravvissuti  155.
363 morti per poter arrivare finalmente  – tutti – ad interrogarci sulle loro vite
E’ normale? E’ civile? E’ umano?

I cadaveri dei morti possono anche ignobilmente esser compattati in  numeri,
da vivi però dovremmo poter essere -   siamo -  tutti “unici”.
Forse aver  perso  la capacità di sentire la grandezza di questa unicità,
di sentire l’immensa incommensurabile perdita che ogni singola vita porta via a tutti con la propria  fine,
fa accettare la quotidiana indegnità di numeri che crescono più delle maree che li generano.
Numeri che non meriterebbero  l’offesa ultima dell’ipocrita  commozione, delle  lacrime, del buonismo di circostanza,  dell’emotività di facciata.
Ognuno di quei morti, ognuna di quelle vite, di quei figli rubati, di quei talenti perduti, di quei papà e mamme  negati, di quegli amici sottratti, di quei bimbi violati meriterebbe solo e semplicemente rispetto.
Rispetto, serietà, verità.

I pezzi del puzzle della verità    sono domande.

Chi li ha uccisi?
Il mare o i conflitti?
Conflitti per cosa, a vantaggio di chi, pagati come ?
Il mare o la povertà?
Il mare o un sistema economico il cui Pil cresce anche e molto vendendo armi?
Il mare o una finanza che globalizza tutto tranne la solidarietà?
Il mare o   politiche internazionali che firmano o tollerano flussi e respingimenti ?
Il mare o  leggi che stabiliscono il reato di clandestinità? 
la beffa oltre il danno …
un beffardo degrado che umilia un essere umano già in condizioni di disperazione a non venir giudicato per ciò che faccia – onesto o disonesto per noi pari sono – ma per ciò che sia!
sarà la storia che, in tempi di precariato, non insegna più o siamo noi che non siamo in grado di imparare?   ah saperlo saperlo !
Posso chiedere – e legiferare – che  non si compiano determinate azioni ma non posso chiedere né legiferare che qualcuno non   sia – suo assoluto malgrado – ciò che   è costretto ad essere!

Chi li uccide allora?
Li uccide il mare o la nostra convenienza?
il mare o la nostra indifferenza?  omertà? egoismo?

Scendiamo in piazza se aprono o spostano una discarica: bene, scendiamo in piazza se chiudono la sede di un presidio medico o dislocano un’azienda: bene, scendiamo in piazza se tolgono i sussidi alle fasce più deboli della popolazione: bene  ma dove siamo scesi per i 18951 bambini uomini e donne morti in mare dal 1990 ad oggi?

Rispetto, serietà, verità obbligano a fare allora i conti con un’ultima scomodissima  parola: complicità.

Non fu il mare a raccoglierci,
noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.
Calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole
Traversammo i deserti del Tropico del Cancro
Quando fu in vista il mare da un’altura
Era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi
Era finita l’Africa suola di formiche
Le carovane imparano da loro a calpestare
Notte di pazienza, il mare viaggia verso di noi
All’alba l’orizzonte affonda nelle tasche delle onde

Bisogna spegnere la televisione
Uscire di casa ed iniziare a camminare
Camminare e camminare ancora fino ad intravedere un orizzonte di senso
Un orizzonte che  possa aiutare le coscienze ad accendersi

Cos’è la bontà?
Cosa sono  pietà, compassione, generosità?

Mi sono posta spesso queste domande
perché non riesco proprio a viverle né come sentimenti né come “talenti”. Non riesco a  pensare che esistano persone più dotate di altre in queste virtù. Che possa esserci una sorta di disuguaglianza originale nella capacità di bene personale.
Credo piuttosto che la bontà sia di tutti e per tutti e credo sia un semplice prodigioso effetto  la cui causa risieda in un’unica fondamentale condizione:  la prossimità.
E’ la distanza – meglio la vicinanza – a far emergere in noi   com-passione (che infatti significa “sentire con” … e per sentire con  … devo arrivare ad essere accanto a qualcuno). E’ guardare gli occhi di chi abbia bisogno di aiuto che rende – ognuno di noi – capace in qualche modo di offrirlo. E’ la prossimità che fa sentire il respiro, che fa percepire un bisbiglio, che fa sfiorare la pelle bagnata la giusta distanza per consentire ai nostri migliori sentimenti di detonare e  far lievitare la dignità altrui e nostra.  Non basta essere informati, aver letto, aver “guardato la televisione”. Guardare la televisione è guardare una lastra. Non basta,  non giova. A noi ed agli altri.
Di tutta la notissima parabola del buon samaritano le parole che mi hanno più interrogata sono sempre state quattro: gli si fece vicino. Il samaritano, uomo d’affari, in viaggio in una terra “avversa”, con  mille pensieri per la testa, non si avvicina  all’uomo percosso e derubato perché è buono (anzi più buono del sacerdote e del “levita” che passando prima di lui tirano dritti per la loro strada)  ma è buono, diventa buono,  perché – prima -  si è avvicinato.
Quale sia o non sia la nostra fede   “vicinanza”    è la sfida che la coscienza lancia a chiunque ponga nell’uomo il proprio credo.

A mare il vento è senza peso di grani di deserto,
mette sale azzurro sulle palpebre scure
Il sale imbianca le tempie dei bambini
Che scottano di fame, le bagniamo col mare.
Il sale ci mancava in altopiano
I mercanti venivano a portarlo coi cammelli.
In cambio delle pelli, delle corna fiammanti,
il tesoro del sale che da gusto e conserva
Ora l’abbiamo addosso, crosta amara,
la ricchezza con noi gioca a togliere e dare

Dopo aver camminato
chinato lo sguardo, provato vergogna
Dopo aver raggiunto il limite del nostro “qui”
Dovremmo alzare la testa e cercare l’oltre
Dovremmo da questa nostra terra di arrivi osservare il mare in direzione uguale e contraria fino a raggiungere la sponda delle partenze.
Un mondo “altro” in  cui    vivono donne ed uomini poveri certamente di ciò che abbonda nelle nostre case ma ricchi di ciò che scarseggia nelle nostre vite.

Donne e uomini di speranza, fiducia, condivisione, coraggio.

Speranza. Quella vera. Speranza di chi non valuti la vita dai  tantissimi meno o più con cui debba quotidianamente  calcolarla ma sappia riconoscerla per ciò che è:   dono. 

Fiducia. La fiducia che nasce dal saper tessere relazioni profonde. Legami famigliari forti in cui  - accade in alcuni paesi africani - non esiste la parola “zio” o “zia” ma solo papà e mamma anche per le sorelle e i fratelli dei genitori che dividono la responsabilità, l’impegno, la tenerezza del crescere ogni bambino. O la fiducia che nasce che dal saper guardare l’altro aspettando  il bene come norma  il male come eccezione.

Condivisione. Difficile parlare di condivisione in terra di elemosina. Difficile raccontare la grandezza del sapere dividere con chi ci sia accanto tutto ciò che si abbia certi di non perdere nulla perché  gli altri, a loro volta,  condivideranno con noi. Sarà la condivisione a produrre ricchezza. Una ricchezza che, se ci sarà, sarà per e di tutti.
Dalla condivisione nasce ricchezza comunitaria, dalla ricchezza -  individuale -  nasce elemosina.
Un cambiamento di punto di vista: prima io o prima noi.
Prima me stesso e  tutti i miei bisogni. Dopo, se resterà qualcosa, senza che il mio stile di vita venga assolutamente compromesso,   darò  quel qualcosa a chi, non avendo nulla, non potrà certo “valere” quanto me, né pretendere quanto io abbia.
O prima il noi e la consapevolezza che io non posso   arrivare a  soddisfare anche  i  bisogni superflui se tu non sei in grado di soddisfare  i necessari. Tu che sei accanto a me. Che sei “prossimo”. Non posso essere felice sapendo, vedendo,  che tu non lo sei.
Perché felicità e ricchezza o sono “nostre” o non sono.

Coraggio. Coraggio da vendere e da insegnare.
Nati nella sabbia. Deserto per lo più. Desertum, deserere, abbandonare.
Abbandonati dall’acqua prima, abbandonati nell’acqua poi. Acqua centellinata con i secchi dai pozzi per vivere, buttata fuori a secchiate dai barconi per non morire. Coraggio di subire, sopportare, perdere tutto senza arrivare a perdere se stessi. Coraggio di sapere e volere ancora sorridere senza per questo dimenticare. Coraggio di osar entrare nel tempio del libero scambio senza  più nulla da scambiare.

Diversamente poveri, diversamente ricchi
Chi   oggi – tra queste due sponde di mare -  ha più distanza da percorrere prima di raggiungere ciò che non ha?
Diversamente ricchi, diversamente poveri
Se così fosse, se così è
Dovremmo prima o poi guardare ognuna di quelle fatiscenti imbarcazioni come  un bastimento carico di preziosissimo coraggio, meravigliosa condivisione, stupefacente  fiducia, incalcolabile speranza.
Dovremmo avvicinarci e finalmente aprire gli occhi e vedere quanta ricchezza arrivi da chi  ci ostiniamo a definire “poveracci”
Flussi di vita donati provvidenzialmente dalla storia ad un  continente malato
cui basterebbe solo sostituire  opportunità a calamità, parlando di migrazioni, per iniziare a risvegliare civiltà.
Manna dal mare.
Flebo di futuro, energia, passione, sentimenti.

Oppure  dovremo iniziare seriamente a preoccuparci per tutta quell’umanità persa inesorabilmente  in mare dal 1990 ad oggi:  la nostra.

Mani mi hanno afferrato, doganieri del nord
Guanti di plastica e maschera alla bocca
Separano i morti dai vivi, ecco il racconto del mare
mille di noi rinchiusi in un posto da cento
Italìa   Italìa   è questa l’Italìa?
Hanno buona parola per il loro paese, vocali piene d’aria
“Si dice Itàlia e questa è una sua isola
Di capperi, di pesca e di noialtri chiusi”
Non so che cosa è isola, chiedo e risponde:
“Terra che sta piantata in mezzo al mare”
E non si muove? “No, è terra prigioniera delle onde
Come noi del recinto.” Isola non è arrivo

Isola non è arrivo
 … ma dove vogliono arrivare, loro?
 … e dove vogliamo arrivare, noi
prima di incontrarci?




(i testi in “rosso” sono tratti dal Libro “Solo andata” di Erri De Luca)



4 novembre 2011

AAA ... Pastori ... cercasi ....
Ho aspettato, aspettato … e aspettato ancora.
Poi ho dolorosamente  accettato la risposta che l’attesa mi stava lentamente palesando.
La domanda che mi ponevo era: perché la Chiesa Cattolica non invita i propri  PASTORI a ricordare alle loro  tante pecorelle italiane le parole del vangelo di Matteo che dicono: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».( Mt 25, 45-46 )
Compito di un pastore – di ogni pastore degno di questo nome – dovrebbe essere guidare le pecore dove è bene che vadano. Anzi – ancora più semplicemente -  dov’è il Bene. Un bene che – a questi pastori  – arriva da fonti chiarissime ed autorevoli, fonti scritte da parole incarnate. Parole di un Dio che si è fatto carne, uomo, proprio perché gli uomini e le donne che vogliano dirsi credenti (e  i cattolici dovrebbero essere tra questi!) possano sapere con certezza quali parole mettere in pratica. Se poi qualche pecorella dovesse confondersi o smarrirsi o – per ipotesi -  dovesse arrivare a pensare di sparare a pecore migranti o prenderle a mazzate … i pastori sapranno indicare a tutte la strada giusta da seguire. Ecco perché io – pecora confusa -  quei pastori (quelli eminenti ed eccellenti in primis) - in questi ultimi  mesi - avrei voluto, anzi, avrei avuto bisogno di vederli tutti a Lampedusa ad alternarsi nel dar da bere agli assetati, da mangiare agli affamati, accogliere gli stranierei e ri-vestirli dagli abiti inzuppati.  Indipendentemente da quel che stesse dicendo  o facendo   il governo italiano: perché a Cesare quel che è di Cesare ma a Dio quel che è di Dio.  Se avessi potuto veder questo allora avrei accettato di buon grado la voce della Chiesa quando chieda l’8x1000 o i fondi per le scuole cattoliche (solo per limitarmi a due esempi)  … perché mi sarei detta: hanno ragione a chiedere dal momento che sono sempre i primi a sostenere i bisogni degli ultimi, schierandosi dalla loro parte. E chissà che vedendo lì i propri pastori una pecorella, due pecorelle, tre pecorelle … – prima che il sonno della ragione addormenti  tutti – non inizino a scegliere di seguirne l’esempio.  … Invece – l’assenza e il silenzio dei miei pastori – fa crescere la confusione e con lei i dubbi (tanti) che  stanno spingendomi sempre più fuori dal recinto: come può uno Stato che si definisca cattolico misconoscere un Dio che parli di se stesso dicendo: ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25)  E come possono dei pastori lasciare  il loro gregge perdersi tra volgarità quotidiane, bestemmie contestualizzate, violenze gratuite? E come può questo grande ovile occidentale non ricordare che tra i diritti fondamentali dell’uomo ci sono la libertà individuale, il diritto alla vita e il diritto all'autodeterminazione? … diritti che se statuiti (addirittura legittimando e benedicendo guerre e morte) poi bisogna lasciarli anche esercitare. A tutti. Pecore bianche … e pecore nere! Evidentemente in mancanza di pastori degni di questo nome le cattolicissime pecorelle di questo nostro ricco occidente hanno finito per  dimenticato che: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. (Lc 12, 48)
Gaia, pecora smarrita.



8 luglio 2013
 il Papa arriva a lampedusa ... gira con una "campagnola" ... utilizza un calice realizzato con il legno delle barche dei migranti ...
le  tre AAA possono finalmente essere cancellate  ...
resto  pecora ... ma ho  trovato il mio pastore ...


Santo Padre
Le scrivo per ringraziarla dal profondo del cuore del dono della sua testimonianza
Qualche tempo fa ho scritto una lettera “aperta” 
nella quale tentavo di esprimere il mio turbamento  – come credente – di fronte alla realtà dei nostri fratelli migranti, un quotidiano turbamento di fronte ad immagini e scelte che rendevano ai miei occhi poco “sensata” la definizione di “cattolico” del Paese Italia e poco “significativa” e comprensibile la voce della Chiesa
Una letterina in cui esprimevo il    bisogno  di avere accanto  “pastori” che aiutassero tutte noi pecore diversamente “smarrite”   - bianche e nere - a ritrovare una strada,  un ovile  … prendendo magari sulle spalle le più “piccole” o disperse …
Da anni porto avanti un Blog ed una rete di solidarietà
Ho pubblicato sul Blog quel mio appello perché potesse diventare spunto di condivisione.  Ed ho scoperto che ad essere turbata non ero solo io. 
Ma non sono i numeri a poter dare  risposte.
Le risposte arrivano dalla testimonianza.
Oggi posso finalmente togliere le tre AAA con cui iniziavo quella letterina
Il suo viaggio  - caro papa Francesco - a Lampedusa ha illuminato il mio smarrimento
sono una piccola pecora
cui la Provvidenza ha inviato un grande Pastore
Grazie papa Francesco!
Gaia

4 ottobre  2013  - CORRESPONSABILITÀ

Ciao,
oggi è il giorno della corresponsabilità. Una corresponsabilità che è innanzitutto serio ascolto delle coscienze, riconoscimento delle nostre omissioni e delle nostre stanche parole. Corresponsabilità che è impegno quotidiano, personale messa in gioco: non indignazione saltuaria, non dolore a tragedia avvenuta.
Le morti di Lampedusa non possono essere considerate una fatalità, come non possono essere quelle delle oltre 1900 persone che, dal 1988 a oggi, dopo aver patito fame, guerre e violenze, hanno cercato di raggiungere un’Europa sognata come terra promessa e scoperta come fortezza, spazio chiuso e ostile.
Cosa chiedevano in fondo quelle persone? Di essere viste. E di vedere nello sguardo dell’altro il riflesso della propria dignità.
A ucciderle sono state allora leggi costruite per renderci ciechi e insensibili. Leggi che parlano di “flussi” invece che di persone, che alimentano paure invece di costruire speranze. Leggi che hanno favorito indirettamente i traffici, le forme di sfruttamento e di violenza. Leggi, infine, a cui non basta più rimediare con la solidarietà, col cuore generoso di chi accoglie nella quotidianità o si prodiga nei soccorsi quando avvengono tragedie come quella di Lampedusa.
Oggi, come altre volte, apriamo gli occhi quando ormai è troppo tardi, ci accorgiamo che queste persone esistono solo quando vengono deposte, avvolte in teli di plastica, sulle spiagge di un mare che un tempo si chiamava “mare nostrum”, il mare nostro.
Ecco allora che corresponsabilità significa allargare quel “nostro” affinchè diventi davvero di tutti. Fare in modo che in ogni ambito della vita, a partire da quello cruciale della politica, ci s’impegni per assicurare a ogni essere umano la dignità e la libertà che gli spetta in quanto essere umano.
Quel naufragio è figlio del naufragio delle coscienze, e solo una coscienza risvegliata, corresponsabile, restituirà a quelle persone la dignità che gli è stata tragicamente negata. - don Luigi Ciotti

7 luglio 2013  - 

L’anestesia del cuore che ci rende insensibili (Adriano Sofri).

NESSUN uomo è un’isola.
Nessuna isola è un’isola.
Anche la parabola del buon samaritano può essere raccontata di nuovo al passaggio da una strada di periferia a una strada d’acqua: “Donne e uomini, bambini e vecchi salivano dalla costa libica a Lampedusa, e i briganti li depredarono e li lasciarono mezzo morti in mezzo al mare. Una motovedetta maltese passava di lì, e allargò la rotta”.
“Anche una nave da diporto passava, e virò di bordo. Ma un peschereccio che tirava le reti li vide, e ne ebbe pietà…”. Interrompo la parafrasi grossolana, per non arrivare al punto in cui il ferito viene affidato alla locanda dal samaritano che paga di tasca sua, e parafrasare la locanda con un Centro di identificazione ed espulsione, in cui incarcerarli per sei mesi rinnovabili, per il reato di esser nati altrove — a Samaria, forse.
Lo scorso 23 giugno, quando all’ultimo momento il papa Francesco si tenne alla larga dal concerto per l’Anno della fede, adducendo “impegni improrogabili”, si mormorò che non volesse fare incontri impropri: chissà. Chissà se davvero abbia pronunciato la frase che gli è stata attribuita: “Io non sono un principe rinascimentale”. Frase singolarmente pregnante, in una situazione della curia che può ricordare i fasti e i nefasti di quel periodo meraviglioso, e che soprattutto richiamava involontariamente i cinquecent’anni dalla scrittura del Principe di Machiavelli. In questi giorni c’è stata una imprevedibile cadenza di inviti avanzati e disdetti, che ha coinvolto istituzioni civili, religiose, automobilistiche, e poi il desiderio del papa di non essere accompagnato nel suo pellegrinaggio da autorità politiche, a parte la signora sindaco dell’isola generosa. Devono essere segni dei tempi. Il papa Francesco ha confidato gran parte della propria entrata in scena ai gesti, gli improvvisati e i meditati. Il più meditato era questo: dove fare il primo viaggio. Ammesso che uno di noi si fosse messo nei panni del papa che prendeva la sua decisione (si può fare: quel Machiavelli lo scrisse addirittura tre volte in una sola lettera, di cui contava che fosse fatta leggere al papa di allora, “Se io fussi il papa…”; e prima Cecco, “s’ i fosse papa, allor sarei giocondo, ché tutt’i cristiani imbrigarei”), ecco, non ne avremmo trovata una più significativa e commovente di questa, di andare a Lampedusa. In un bellissimo mare d’estate, mutato da troppi anni nel cimitero d’acqua dei disperati e di chi ha voluto nonostante tutto sperare, e nel deserto d’acqua delle traversate dei superstiti. Il gesto primo era la corona deposta su quel mare, con la richiesta di perdono, incontro agli altri che arrivavano fortunosamente. Lo aspettavano, dei vivi, gli sbarcati, i pescatori e gli altri marinai impegnati a soccorrere la migrazione, e gli abitanti dell’isola vagheggiata come un ponte d’azzardo verso l’Europa. E poiché la gran parte di quelli che vengono dalla costa africana sono musulmani, la visita è stata anche una Ratisbona
sui generis.
Ipersensibili ai gesti e ai simboli, le cronache si sono saziate dello zucchetto al vento, della motovedetta della Guardia Costiera, della papamobile sostituita da una campagnola presa in prestito (appena dopo aver deplorato i preti con le macchine ultimo modello: ci sarà una gran rottamazione…), di saluti e carezze nella lingua universale del Mediterraneo, del pastorale a croce fatto dei pezzi di legno colorato delle barche dei migranti, di tutto ciò che appartiene alla vita quotidiana e fa effetto di straordinario dopo tante cattive abitudini di etichetta e protocollo, e insinua perfino un sospetto di demagogia. Come presentarsi da un balcone molto alto, e dire: Buonasera.
Ma le parole erano altrettanto importanti, e anch’esse sono suonate tanto più straordinarie quanto più normali, a cominciare dal “Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi” consegnato al twitter Pontifex. Non solo Dio, del resto. Si può voltarlo, il twitter: “I bisognosi ci giudicheranno in base a come li abbiamo trattati”. Dice anche, il papa, che toccare la carne di chi soffre è come toccare Cristo.
“Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo”. Anche questo pensiero, questa esperienza, sa stare in piedi per sé, e una vita può essere cambiata quando si abbracci un lebbroso perché si è abbracciato un lebbroso. Era stato il parroco dell’isola a invitare il papa, il mese scorso. “Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore”. Francesco predilige un tono affabile, come questo “per favore”, come la descrizione della meta cui tendono i migranti, “persone in viaggio verso qualcosa di migliore”. Ricorda i richiami di Dio ad Adamo, “Dove sei, Adamo?” e a Caino, “Dov’è tuo fratello?”, e toglie alla tragedia degli annegati il segno della sventura ineluttabile per assimilarla all’omissione di soccorso e, anzi, all’omicidio. “Tanti di noi,
mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri”. Parola di naviganti, “disorientato”, di chi ha perso il suo oriente,
della “anestesia del cuore”, della “globalizzazione dell’indifferenza”. “Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue di tuo
fratello che grida fino a me?’. La cultura del benessere… ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla…”. Abbiamo dimenticato come si fa a piangere per la pena degli altri e la nostra indifferenza, dice, e ha cura di usare il “noi” che lo chiama in correità, salvo abbandonarlo per la terza persona plurale dei “trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri”, e “coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”. Coloro, i pescicani umani piccoli e grossi, hanno già in uggia la mania (lieta, del resto, non lugubre né vittimista) di questo gesuita infrancescato per la semplicità e i poveri. Si sentivano al riparo della distinzione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. I non credenti, o i credenti a loro modo, hanno però altrettante buone ragioni per temere il giudizio dei bisognosi e per abbracciare i lebbrosi. Che Cesare e i suoi impiegati non possono perseguitare o disprezzare se non tradendo se stessi, oltre che il loro Dio. Per non dire di Gesù, quel famoso pauperista.


18 luglio 2013  - Una battaglia di civiltà


Presa di posizione della Fondazione nigrizia onlus  dei missionari comboniani contro le mancate dimissioni da vice presidente del Senato dell’esponente leghista, e sull’inerzia colpevole della maggioranza parlamentare.


La decenza evidentemente non appartiene all’etica politica di Roberto Calderoli, vice presidente, pro tempore, del Senato. Le dimissioni? Ma quando mai? Bastano le scuse personali, a suo dire, a Cécile Kyenge  per chiudere in modo indolore la vicenda delle offese alla ministra dell’integrazione (“Quando la vedo non posso non pensare a un orango”).

Ma non può finire così. Rievocare quel parallelo (negro=scimmia) significa sdoganare uno schema di pensiero che, in un passato non molto lontano, ha portato alla morte di milioni di africani. È questa la differenza con gli altri beceri insulti (dal caimano, al nano, alla pitonessa…) che si scambiano quotidianamente i politici d’alta scuola del teatrino italiano e che contribuiscono all’imbarbarimento del linguaggio, dei rapporti e della vita pubblica. Perché battersi contro il cattivo linguaggio significa anche opporsi al declino della civiltà.

Sappiamo che la paura dello straniero è un bacino inesauribile per chi fa politica. Ma la Lega Nord, da sempre si è spinta oltre: nell’annientamento dell’altro/a già nelle parole. La biografia di Calderoli e dei suoi sodali lo testimonia. La ricchezza del pensiero invece richiede, anzi esige, ricchezza di linguaggio. Mentre è da più di 20 anni che il linguaggio leghista disegna una democrazia povera di principi e ricca di angoscia.

Come missionari comboniani, come Fondazione Nigrizia riteniamo inaccettabile il girare la testa dall’altra parte. Questa non assunzione di responsabilità, non solo del gruppo dirigente leghista, ma della stessa maggioranza che controlla le aule parlamentari e che avrebbe i numeri per sfiduciare Calderoli.

Riteniamo che le parole siano degli atti dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze. E se moralismo significa battersi per evitare che sia espulso dal dibattito pubblico ogni barlume di etica civile, riteniamo sia giusta questa battaglia moralista. Anche, se non soprattutto, all’interno delle istituzioni.

Può infatti, come ha ricordato Gad Lerner, “un’istituzione parlamentare come il Senato della Repubblica avere fra i suoi vice-presidenti un esponente politico che nega l’altrui cittadinanza con argomenti relativi al luogo di nascita? Può permettersi, la nostra Repubblica, di concedere un tale ruolo pubblico a chi semina veleno razzista e alimenta il pregiudizio verso una parte dei suoi concittadini?!”.

Noi pensiamo di no. Per questo ribadiamo, assieme alla nostra vicinanza alla ministra Kyenge, il nostro sconcerto per l’impermeabilità del parlamento italiano alle ragioni che dovrebbero portare alle immediate dimissioni di Roberto Calderoli.

Fondazione Nigrizia

Missionari Comboniani


24 maggio 2013 - Albero Pellè
Scrivo per un tema che mi tocca profondamente, insieme a milioni di italiani, su cui si continua a far finta di nulla. Come tanti sto vivendo il dramma, nel senso opposto agli esodati e ai precari, per la pesantissima “riforma-prigione” pensionistica e del lavoro, affossando tanti onesti cittadini anziani che, come me, hanno già versato doverosamente il proprio contributo al Paese. Sarei dovuto andare in pensione due anni fa ma, pur con oltre 37 anni di provante professione come operatore sanitario, sarò costretto senza scelta a prolungare il lavoro per altri sette lunghi anni. Certamente chi fa un lavoro gratificante non si pone il problema di lavorare anche oltre 80 anni...
Lo scempio della “riforma” è tra lo sgomento di molti, mentre il malessere sociale diventa sempre più incontenibile giacché calpestati la dignità del lavoro e la Vita.
Contro i Diritti Umani si è adottata una tirannia finanziaria, dato che ci si mette un attimo a legiferare mostruosi tagli lineari sui più deboli e la previdenza, ma una vita per non attuare ad esempio provvedimenti urgenti (per uno Stato efficiente) come la decantata crescita, la riforma della Giustizia e quella Elettorale, nonché l’eliminazione totale degli sperperi giganteschi della politica e del suo indotto.
Desidero dunque sottoporre alla Vostra attenzione la mia testimonianza diretta sull’immane dramma di Pensioni e Lavoro (in calce). Un'analisi sociologica propositiva su ciò che si sta consumando nella nostra Nazione e su cui urge un rimedio che interpella l'Etica, le Istituzioni, la Società, la Previdenza presente e futura.
Continuerò la mia lunga umana battaglia (forse più grande di me quanto lo è ancora il silenzio tombale circostante), convinto che ciò contribuisca a favore della Persona nel valore più alto, attraverso il quale si contraddistingue la Civiltà e la Politica di un Popolo.
Ringraziando infinitamente, nell'attesa di una concreta risposta e sostegno a questo dramma, invio un cordiale saluto, Alberto Pellè.


IMPRIGIONATI A VITA DALLA “RIFORMA-GENOCIDIO” PENSIONISTICA E DEL LAVORO

Tra disoccupazione e precariato, esodati, chi perde lavoro né lo ritrova, c’è anche chi dopo sette/otto lustri vorrebbe ma non può lasciare l’attività lavorativa, vedendo traditi i valori più cari quali il sogno di libertà conquistata e la vita. Si è giunti così a una previdenza che, pur in attivo ma deviando la ricchezza, continua nell’innalzamento scellerato dell’età pensionabile anche contro chi, senza scelta e senza essere causa di sperperi, stava lì lì per maturarla, avendo eliminate anche le pensioni di anzianità dei 40 anni di servizio.
In “Senza Pensioni” gli autori tracciano un Paese con una spesa pensionistica impropriamente usata anche negli ammortizzatori sociali. Oltre alla scarsa crescita economica e demografica, unitamente allo sbilanciamento tra entrate e uscite della previdenza, s’inizia a lavorare più tardi. Stipendi e pensioni non sono commisurati al costo della vita, e pagarsi una previdenza aggiuntiva è assai difficoltoso.
Si è adottato con l’accetta mostruosi tagli lineari su pensioni e lavoro, più che ricorrere ad altre entrate e a sensati rimedi. Questione di priorità, mentre, nel “tamtam della crisi”, non si colgono le cause che da anni portano in rosso, come le costose opere insostenibili e la dissanguante regola del mal costume. Si va dalle spese pazze istituzionali (soprattutto nel suo indotto) sottratte da nuove tasse e dai servizi al cittadino che si dice di voler rappresentare, al pensionato INPS più ricco d’Italia con 90.000 € al mese, a differenza ad esempio degli insegnanti plurilaureati con 1.000 € mensili.
Si è ora giunti a un embargo contro i comuni pensionabili con monologhi agghiaccianti quali: “Il risparmio sulle pensioni serve per salvaguardare il futuro previdenziale dei giovani”, quando non si dà loro futuro e al contempo si sottrae quello conquistato agli attuali anziani imprigionandoli a vita. Si sostiene che “non si possono dare pensioni per quaranta anni lavorandone trenta”, come se andando in pensione dopo sessanta/ settant’anni si vive in genere altri quaranta, a dispetto delle statistiche, della qualità della vita, del buon senso e dei contributi versati spesso in lavori di una vita poco gratificanti. Nel frattempo si stanno sacrificando gli attuali onesti anziani che saranno forse l’ultima generazione a lavorare per 45/50 anni. In un lampo sono stati scippati i sacri valori conquistati in sessant’anni e quasi nessuno fa niente! Anche di fronte a gravità quali: lavori usuranti e chi ha delle patologie, personale ridotto e anziano, servizi e orari aumentati a fronte di stipendi decurtati, tagli alle risorse pur aumentando le tasse, caos collettivo nella difficile offerta di servizi ormai al collasso, piattume, maggiori malattie psico-fisiche e costi socio-familiari che ricadono nella collettività. Così gli anziani di oggi dovranno continuare, se riescono in queste condizioni inumane, a lavorare “gratis” altri lunghi anni per poi percepire, con i nuovi drastici sistemi, pure una pensione decurtata del 40% e più vicina alla “speranza di morte”, visto i tagli e l’età pensionabile (la più alta al mondo) verso i settant’anni. Ci sarà infine chi con 45/50 anni di servizio percepirà ad esempio 900 € al mese di pensione al pari di chi ne ha lavorati quindici, a differenza degli attuali pensionati che, a parità d’impiego e con 35 anni di contributi, percepiscono 1.500 € al mese. Dopo aver lavorato una vita, i tre colpi di grazia: schiavitù, miseria e corta vecchiaia.
Questo il turno degli anziani di oggi. Questa la riforma del lavoro e delle pensioni nel motto della “equità-crescita e del risanamento". Quando oltre ai suicidi, alle numerose aziende che chiudono giornalmente, agli esodati, al precariato, all’articolo 18, all’aumento delle tasse e dei tagli, delle diseguaglianze e della povertà, nell’immane sofferenza si è trasformato il lavoro comune in una prigione da cui ora né si può uscire né entrare. Si è legittimato il tradimento contro l’economia equa e i valori inalienabili in un silente lento genocidio. Una “moderna guerra” in nome del “debito pubblico”, che aumenta... Drammatici in ogni caso, in termini economici nonché in servizi e vite spente, gli sviluppi per i tagli nel breve e lungo periodo, unito allo sprofondare del Benessere equo e sostenibile (Bes). Lo scempio della “riforma” è tra lo sgomento di molti, mentre il malessere è sempre più incontenibile.
Non sono le doverose tasse il dilemma principale (specie se distribuite equamente e con adeguati servizi), o gli ammortizzatori sociali e quant’altro (se non sottratti alla previdenza), ma il vero dilemma è l’andare contro la dignità del lavoro e la Vita. Non è accettabile un sistema al contrario, dove gli ultimi a beneficiare e malamente della previdenza sociale sono proprio coloro ai quali è rivolto e per cui è nato il sistema pensionistico. Là dove si trasformano in capri espiatori quanti lavorano e pagano i contributi, o si premi chi comincia a quarant’anni il lavoro, togliendo ciò che appartiene agli anziani affamandoli nella fase più vulnerabile della vita.
Occorre usare correttamente e in modo decisamente più sostenibile le risorse socio-economiche, più che iniziare dalla coda e sterminare le tutele sociali presenti e future, ed è necessario rivedere o liberalizzare i contributi previdenziali, far scegliere il prolungamento o riportare l’uscita lavorativa a quota 96 (anni d’impiego più l’età anagrafica), per incentivare la crescita, l’occupazione giovanile, le aziende, l’economia, ridare etica e dignità alla persona.

6 marzo 2013 - Napoli, Città della Scienza



Gentile Sindaco, dottor Luigi De Magistris,
Le scrivo con il cuore in mano, completamente in fiamme dopo quanto successo stanotte a Città della Scienza. Sono Dario Calapai, anni 44, residente a Bagnoli da 10 anni, palermitano doc, sposato con splendida napoletana di Cavalleggeri, 2 figli napoletani che hanno goduto Città della Scienza innumerevoli volte e che fanno canottaggio all'Ilva o hanno giocato a rugby al campo ex Italider. Insomma, rappresento una delle tante famiglie di questo territorio che stanotte ha avuto inflitto un'offesa troppo grande. La coltellata finale dopo lo scandalo del post chiusura della Fabbrica, con i suoi megaprogetti miliardari rimasti nel sito internet di BagnoliFutura.
Ciò premesso, per quanto accaduto, Le dico che Lei è il Sindaco di questa Città meravigliosa, meravigliosamente maledetta e violentata, e adesso Lei deve guidare la riscossa di noi onesti, partendo da Bagnoli. Lei deve essere la nostra guida, anche di coloro che non l'hanno votata, anche di coloro che l'hanno votata e dicono di esserne pentiti.
E' arrivata l'ora di "ARRABIARSI" e di essere tutti una cosa sola.
Le propongo, anche a nome dei miei compagni di rugby e di esperienze di vita di Bagnoli, 3 cose da fare nell'immediato:
  1. Indire una pubblica assemblea entro 48 ore a città della scienza dove radunare tutta la cittadinanza onesta di Napoli e far sentire a tutta l'Italia la nostra presenza e la nostra voce. Da replicare a Roma in modo organizzato e strutturato con tutta la società civile napoletana.
  2. Organizzare una pubblica sottoscrizione per la ricostruzione di Città della Scienza, tramite l'istituzione di un Garante che verifichi la trasparenza e l'efficacia della raccolta e dell'utilizzo. Un nome per il garante: Giorgio Napolitano che a breve andrà via dal Colle.
  3. Organizzare entro fine mese un mega concerto invitando artisti napoletani che rappresentano con la loro musica e le loro arti la vera buona "napoletanità" a promozione della pubblica sottoscrizione
L'ultimo appello che Le faccio, è rivedere la logica dei progetti che sono stati predisposti negli anni di Bassolino sull'ex Italsider. Vedi Parco dello Sport e Parco Urbano. Si tratta di mega progetti affascinanti nell'immediato dal punto di vista estetico e di comunicazione, ma totalmente fuori dal mondo, dal nostro mondo per sostenibilità e logica di usufruibilità del territorio. Sono il presidente della Partenope Rugby Junior, lavoriamo nelle scuole di Napoli e provincia, e come tante altre società sportive, soffriamo disperatamente della mancanza di infrastrutture di prossimità e di risorse. Bagnoli potrebbe essere un incredibile contenitore di opportunità di lavoro per tipologia di settore di business, aprendosi ai giovani imprenditori, alle cooperative, e non solo ai grandi progetti e ai soliti noti. C'è spazio per tutti, dall'albergo, al camping, dal laboratorio artigianale, agli studios cinetv, dalla casa di registrazione al museo archeologico industriale....ci vuole vera progettualità ancorata alle nostre giovani energie che premono per avere una chance...

Io La ringrazio se mai avrà avuto modo di leggere le mie parole.

Un cittadino di Napoli, Suo elettore.

Dario Calapai

10 gennaio 2013

... Buen Vivir  ...

In teoria non avrei tempo: sono le 2,00 di notte e sono stanca.
In pratica se non scrivo, oggi finirei per sentirmi fortemente chiamata in causa, additata … dalle mie stesse parole.

Ieri sono stata ad un incontro. La presentazione di un libro. Il tema era “Confronto sul Buen Vivir”. Relatori l’ex sindaco di Bogotà (Colombia), professore e rettore universitario Antanas Mockus, don Giovani Franzoni e l’attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris.

Ho ascoltato 3 testimonianze “fuori dal comune”. Se non temessi i miei stessi vocaboli potrei dire tre ore piene di “buona politica” (liberi di dare ad aggettivo e sostantivo i contenuti che ognuno a modo proprio ha salvato dallo scempio)

Ho ascoltato idee, analisi, punti di vista su responsabilità sociale, gestione della cosa pubblica, cittadinanza consapevole e attiva, idee piene di senso e creatività. La fantasia al potere ed una coerente idealità possono dar vita a matrimoni fecondi i cui figli e figlie si chiamano cittadini, la cui casa è pubblica ed i cui beni sono “comuni”.

Pensare alla Colombia è inanellare parole come narcotraffico, sangue, corruzione, populismo.

Ma ridurre a queste parole il proprio “sapere” è perdere molto di questa terra.

Antanas Mockus è un uomo minuto, esile, agile. Occhi profondi, luminosi, cercatori e sanamente visionari. Una voce calda specchio di un animo realisticamente utopico. Un artista che svela una capacità da manovale nel costruire ed ideare spazi e futuro.

Di fronte al degrado, alla mancanza come sistema, alla violenza, l’alternativa alla resa (spesso mascherata col nome di “politiche forti”) è la leggerezza, lo stupore, l’umorismo … la fiducia declinata in tutte le sue voci.

E’ così che il prof. Mockus decide ad esempio – di fronte alla sistematica trasgressione del codice della strada – di affiancare i vigili urbani con dei mimi. Ai mimi – posizionati in giro per le strade, agli incroci, accanto agli snodi più frequentati - il compito di ripetere comportamenti scorretti ogni volta che vi assistano soprattutto quelli in violazione dei segnali di attraversamento pedonale, o di chi getti rifiuti in strada, o manchi di rispetto alle persone anziane. La scorrettezza letta con ironia viene svuotata della sua virulenza e resa ridicola. Come ridicolo appare chi la compia. Con i mimi sono stati raggiunti risultati che le contravvenzioni e i divieti non avevano mai ottenuto.

Sempre nel nome della leggerezza, del comunicare in modo sorprendente – e quindi destabilizzante – la lotta allo spreco di acqua è affrontata dal sindaco di Bogotà facendosi riprendere nudo mentre fa la doccia dimostrando come sia possibile completarla in tre minuti. Un gesto che vale mille discorsi.

Una delle sfide più importanti è stata quella alla violenza urbana. Nei primi 3 anni del suo mandato il tasso di omicidi è calato di 21 punti percentuali. Gli strumenti sono stati molteplici ma l’idea di fondo è riportare nel sentire comune il senso di fiducia. Il primo passo è il valore dell’autolimitazione, il secondo è la mutua limitazione, il terzo la limitazione dall’esterno. Se di fronte a dinamiche violente l’unica risposta alla domanda di sicurezza è solo e sempre limitare dall’esterno i comportamenti brutali non si svilupperà mai negli individui la capacità di autolimitarsi: un valore ed una risorsa per tutti.

Non sono in grado di condensare in poche righe una visione politica così piena di creatività, di nuovi linguaggi, di partecipazione, di riappropriazione di spazi e scelte, di condivisione.

E sulla condivisione don Giovanni Franzoni ha fatto una riflessione che ha toccato proprio la dimensione del sacro. Ciò che rende l’ostia sacra non sono – solo – le formule recitate dal celebrante ma la dimensione del gesto, la comunione, la dinamica assunta e accolta del condividere. Sono i gesti, le scelte che compiano ad infondere sacralità a ciò che utilizziamo nel nostro vivere.

Condivisione, valore della persona, sfide

E’ il turno di Luigi De Magistris. Anche Napoli è a suo modo un trampolino.

La prima volta che lo sento parlare di persona. Serio, attento, ha carisma.

Napoli è senza soldi. Ma le soluzioni non devono partire dai soldi. Né da altri. Le soluzioni sono seminate nelle persone quando tornano a pensare da cittadini.

Una delle trappole è l’alternativa pubblico privato. Non funziona il “pubblico”? Aumentiamo il privato.
Ma la coscienza civile per rifondarsi ha bisogno di recuperare ambiti altri ed oltre la contrapposizione pubblico privato. Gli ambiti dei beni comuni.

A Napoli tutta la raccolta dell’immondizia era stata sempre e sempre più affidata a privati (sub appalti in odore di camorra) La scelta è stata riportare tutto su un piano pubblico.

Aumentare ciò che è pubblico e comune: spazi, luoghi, beni, è togliere ossigeno alla criminalità ed alla violenza. Ogni spazio restituito alla collettività è uno spazio in cui sarà meno probabile assistere ad eventi criminosi.

Per realizzare questa riappropriazione comunitaria dell’abitare – senza fermarsi di fronte alla mancanza di fondi - in ogni quartiere il Comune ha proposto agli abitanti la disponibilità di alcuni spazi (edifici, costruzioni etc) da utilizzare come centri per la cultura, lo sport, il tempo libero, la formazione. I lavori di “riconversione” però devono essere sostenuti attraverso una sorta di azionariato popolare in modo che la responsabilità personale sia doppiamente evidenziata. Tali progetti stanno dando ottimi risultati e la sfida principale – quando si iniziano a riaccendere le capacità e le speranze – è oggi quella di confrontarsi con proposte continue che rivelano in ogni abitante un potenziale “sindaco”.

E poi c’è e c’è stato l’esperimento del lungo mare restituito ai cittadini. Una restituzione che ha svelato rispetto, com-partecipazione, convivialità, ordine e pulizia.

Nulla di peggio di un luogo comune per strangolare la novità e la crescita individuale e comunitaria.

Ero andata ad ascoltarli perché ero in cerca di risposte. Di segni.

Domenica scorsa ero allo stadio dei marmi. Con me i mie due cani. Le mie due figlie pelose e miti. Entrambe al guinzaglio. Giornata splendida. Intorno allo stadio bambini, biciclette, passanti. Viene verso di me, di noi, un cane nero. Chiedo al padrone urlando per la distanza di mettergli il guinzaglio. Una delle mie cane è stata morsa lo scorso anno e da allora è talmente spaventata da reagire in modo scattoso. Con flemma il padrone si avvicina e mette il guinzaglio al cane. Quando lo incrocio mi permetto di dirgli: sarebbe uno spazio pubblico con obbligo di guinzaglio per i cani. Risposta: a me degli obblighi non mi interessa niente!
Non solo sei in torto. Non solo non ti scusi. Ma “chiudi” tutta la questione unicamente su un piano egoistico ed egocentrico.

Potrà sembrare banale questa digressione sui cani ma la sua emblematicità mi ha svuotata. Le città si riempiono di cartelloni elettorali mentre le persone si svuotano (sono oggi svuotate) di ogni civismo. Per chi sono allora quei cartelloni ? Questo prolificare afono di ricette politiche tendenti all’insipido?

Da dove e da cosa (ancor prima che da chi) è possibile ripartire ?
Cercando ho trovato un primo mirabile segno, una prima risposta nelle tre voci di ieri: 3 visionari seduti su un palco a raccontare una politica fecondata di profezia e “fede”.
E – come spesso capita – accanto a questo segno ve n’era un altro opposto.
In sala saremo stati probabilmente una settantina di persone.
Settanta su circa 3,5 milioni di abitanti.

Mi chiedo
cosa devo valutare per arrivare alle mie risposte:
il valore di ciò che ho ascoltato o il numero delle presenze?
Credo entrambi, necessariamente entrambi. Sbilanciarmi su uno sarebbe alterare l’altro.

Sono da poco rientrata da una conferenza di un padre gesuita – P. Francesco Rossi de Gasperis – su Giobbe.

Ho scoperto che c’è un termine ebraico “davar” che viene tradotto come parola ma in realtà significa “fatto”, cosa, evento. In ebraico la parola è un fatto che viene espresso.
Era questo forse che stavo cercando.

Ho bisogno – c’è bisogno per una politica degna di fiducia – di parole al servizio dei fatti. Parole plasmate di fatti ed eventi. Senza un fatto non può – ne deve o dovrebbe esserci – parola.
Ne sono state dette tante, troppe senza che i fatti le abbiano mai seguite … meno che meno precedute.
Sarà per questo che i cani restano senza guinzaglio, i teatri vuoti … ed io a quest'ora davanti al PC?
... buona notte ...
gaia
17 ottobre 2012
Signor Prefetto di Napoli
e p.c. Signora Prefetto di Caserta
Signora Ministro degli Interni

Signor Prefetto,
sono appena ritornato a casa dopo l’incontro in prefettura di mercoledì 17 ottobre.
Come può facilmente immaginare mi sento tanto mortificato dalle sue parole gridate nei miei confronti e senza motivo davanti a un consesso così qualificato. 
Che dirle?
Se a me, prete di periferia, è concesso di ignorare che chiamare semplicemente “signora”, la signora Prefetto di Caserta fosse un’ offesa tanto grave, non penso assolutamente che fosse concesso a lei, arrogarsi il diritto di umiliare un cittadino italiano colpevole di niente, presente in prefettura come volontario per dare il suo contributo alla lotta contro lo scempio dei rifiuti industriali interrati e bruciati nelle nostre campagne.
Alla fine dell’incontro ho ricevuto la solidarietà di tante persone presenti all’increscioso episodio e la rassicurazione da parte della signora Prefetto di Caserta che non si era sentita per niente offesa da me nell’essere chiamata “ signora”.
Forse le sarà sfuggito che lei non era e non è un mio superiore.
Mi dispiace.
Tanto.
Avrebbe certamente potuto consigliarmi di rivolgermi al Prefetto di Caserta, chiamandola 
“ signora Prefetto”. Avrei accolto immediatamente il suo consiglio. Invece, con il tono di voce del maestro che redarguisce lo scolaro, e con parole tanto dure quanto inopportune, ha quasi insinuato che il sottoscritto non avesse rispetto per lo Stato.
Scrivo sovente per Avvenire, il giornale che ha il merito di aver portato il nostro dramma alla ribalta della cronaca nazionale. Se vuole può controllare se tra i miei numerosi editoriali c’è una – dico una sola – parola dove non risuona un amore sviscerato per la mia terra, la mia Patria , la mia gente. E un rispetto sofferto per le Istituzioni. 
Al contrario, se una cosa mi addolora ( l’editoriale di ieri, martedì 16 ottobre lo conferma ), se una cosa mi addolora, dicevo, è constatare che tante volte è propria la miopia delle istituzioni, la pigrizia di tanti amministratori, il cattivo esempio di tanti politici che fanno man bassa di denaro pubblico, a incrementare la sfiducia e la rabbia in tanti cittadini.
Personalmente sono convinto che la camorra in Campania non la sconfiggeremo mai. Lo dico non perché sono un pessimista. Al contrario. Non la sconfiggeremo perché il “pensare camorristico” ha messo radici profondissime in tutti. Quel modo di pensare e poi di agire che diventa il terreno paludoso nel quale la malapianta della camorra attecchisce.
Come ho potuto dirle in corridoio, io alle mortificazioni sono avvezzo. Spendo la mia vita di prete nella terra del “ Clan dei Casalesi”. La mia diocesi, Aversa , è quella di Don Peppino Diana.
Quante umiliazioni, signor Prefetto. Quante intimidazioni. Quanti soprusi. Quante minacce da parte dei nemici dello Stato o di semplici delinquenti.
Ma io dei camorristi non ho paura. Lo so, potrebbero uccidermi e forse lo faranno. Io l’ ho messo in conto fin dal primo momento in cui sono stato ordinato prete.
No, non sono loro che rendono insonni le mie notti. Loro non sono lo Stato. Loro sono i nemici del vivere civile. Loro hanno sempre e solamente torto.
Io credo allo Stato. 
Alla democrazia. 
Io credo alla libertà.
Io credo alla dignità dell’uomo.
Di ogni uomo.
Io spendo i miei giorni insegnando ai bambini, ai ragazzi, ai giovani che non debbono temete niente e nessuno quando la loro coscienza è pulita. Ma aggiungo che bisogna sradicare il fare camorristico sin dai più piccoli comportamenti. 
Perché tutto ciò che uno pretende in più per sé e non gli appartiene, lo sta rubando a un altro. Perché ogniqualvolta che una persona si appropria di un diritto che non ha, sta usurpando un potere che non gli è stato dato.
Tutti possiamo cadere in queste sottili forme di antidemocrazia. 
Ecco, signor Prefetto – glielo dico con le lacrime agli occhi – lei stamattina mi ha dato proprio questa brutta impressione. Lei ha calpestato la mia dignità di uomo. 
Ha voluto mortificare il prete o il volontario impegnato sul dramma dei roghi tossici? 
Ha voluto insegnarmi l’educazione – a 57 anni! – o mettermi a tacere perché già immaginava ciò avrei denunciato?
Le nostre campagne languono, signor Prefetto.
I giovani sono scoraggiati.
I tumori sono aumentati a dismisura.
La gente muore in questa terra avvelenata e velenosa. 
Le amministrazioni locali – qualcuno glielo ha ripetuto anche stamattina – non riescono a tutelare i loro territori e la salute dei loro cittadini. E proprio a costoro viene ricordato il dovere farlo. 
È una serpe che si morde la coda. 
Noi abitanti di questi paesi a Nord di Napoli, ci sentiamo prigionieri in questo “ Triangolo della morte” dal quale desideriamo uscire quanto prima, pur sapendo che per tanti di noi i danni alla salute sono ormai irreparabili.
Lo facciamo per le generazioni future.
Per andare con serenità incontro a sorella morte quando sarà il momento.
Ci ripensi.
In mezzo a tanti problemi in cui siamo impelagati; mentre nei nostri paesi tanta gente scoraggiata non ha fiducia più in niente e in nessuno; mentre la camorra ancora ci fa sentire il suo fiato puzzolente sul collo; mentre i rifiuti tossici continuano ad essere bruciati e interrati nelle nostre terre, il signor Prefetto di Napoli, mette alla berlina un prete davanti a una cinquantina di persone, perché si è rivolto al Prefetto di Caserta chiamandola semplicemente “ signora”, anziché “ signora Prefetto”. 
Incredibile.
Resto, naturalmente, coi miei dubbi.
Ai miei diritti non rinuncio facilmente.
Ma, mi creda, cerco a mia volta di non invadere quelli di nessuno.
Purtroppo, stamattina, credo che lei, signor Prefetto, pur forse senza volerlo, abbia maltrattato e rinnegato i miei.
Le auguro ogni bene.
Il parroco
Sac. Maurizio PATRICIELLO
Frattaminore 17 ottobre 2012




15 ottobre 2012


Signor ministro, mi piacerebbe che questa mail arrivasse fino a Lei e non ad uno dei suoi segretari o membri del suo staff, per poterLe trasmettere, con le mie parole, tutta l'indignazione che provo per le Sue ultime dichiarazioni e per i provvedimenti che il Suo governo intende prendere riguardo alla scuola . 

Mi presento: mi chiamo Antonietta Brillante; sono dottore di ricerca in filosofia politica; ho ottenuto tre abilitazioni alll'ultimo concorso indetto alla fine degli anni 90; sono entrata di ruolo nella scuola pubblica nel 2004 e attualmente insegno filosofia e scienze della formazione presso il Liceo Forteguerri di Pistoia.

In base a quanto ho appena letto su alcuni quotidiani, Lei ha argomentato la proposta di portare a 24 ore settimanali l'attività di insegnamento dei docenti della scuola secondaria, sostenendo che "bisogna portare il livello di impegno dei docenti sugli standard dell'Europa occidentale".

Mi chiedo e Le chiedo se Lei è mai stato in una scuola di un Paese dell'Europa occidentale, possibilmente del nord-Europa. E' un interrogativo che non mi pongo da oggi, ma che oggi, a fronte delle Sue ultime dichiarazioni, si fa più impellente ed esige una risposta precisa.
Ebbene, io Le posso dire che ci sono stata. Quattro anni fa, sono stata in Danimarca, in un paesino dello Jutland, Skive, per due settimane. Ho accompagnato una classe ad uno scambio e, dal momento che insegno in un Liceo pedagogico, abbiamo visitato, full-time, per 14 giorni, scuole di ogni ordine e grado: dai Kindergarten ai Licei. Le posso anche dire che le nostre scuole, per quanto riguarda le strutture, i materiali didattici, gli spazi e i tempi della didattica, sono proprie di un Paese arretrato e sottosviluppato: e di questo, la responsabilità è di chi ha deciso, da vent'anni a questa parte che, prima, per entrare in Europa, poi, per far fronte alla crisi, bisogna tagliare la spesa pubblica, cioè la scuola, la sanità, le pensioni (sia mai le spese militari - vedi acquisto degli F 135 - o le missioni militari all'estero). Per inciso, "ricette" per le quali non è necessario un governo di "tecnici", né lo stipendio di ministro o di parlamentare: le saprei proporre pure io, che mi occupo di altro e ho ben altre competenze.
A Skive mi sono resa conto che, per quanto riguarda il curriculum di studi e la didattica, con eccezione di quella che prevede l'uso di laboratori, noi non abbiamo niente da invidiare ai Paesi europei. Non solo il livello di preparazione dei colleghi danesi non era certo superiore al mio o a quello di molti colleghi italiani, ma ho anche rilevato che, per quanto riguarda lo studio analitico dei testi e delle fonti (siano essi letterari, storici o filosofici), mediante il quale gli alunni conseguono diverse competenze, molti docenti italiani potrebbero avere qualcosa da insegnare a quei colleghi.
A Skive ho anche scoperto che i colleghi danesi, che lavorano 18 ore alla settimana, per un anno scolastico di 200 giorni, percepiscono uno stipendio medio di 3.000 euro (parlo di 4 anni fa), a fronte di uno stipendio, quale è il mio, di 1.380 euro, che tale resterà fino al 2017. Non solo: i colleghi di Skive, quando hanno compiti da correggere, inviano una copia in un ufficio a Copenaghen, che calcola il tempo medio di correzione per il numero di alunni e computa, su quelle basi, un compenso aggiuntivo. I docenti di Skive non devono controllare gli alunni durante i lunghi intervalli e neppure hanno l'obbligo di incontrarsi con i genitori, perché il rapporto privilegiato è quello diretto: docente-discente (unica eccezione: 5 minuti di colloquio a quadrimestre, concessi ai genitori degli alunni che frequentano il primo anno).
Ministro, sono questi gli standard europei!

Io sono un'ottima insegnante: non solo perché ho un livello di preparazione nelle mie discipline persino superiore a quello che è richiesto ad un docente di scuola superiore, ma perché ho la capacità - lo attestano i riconoscimenti degli ex alunni e delle loro famiglie - di coinvolgere gli studenti, di sollecitare la loro attenzione, il loro interesse e la loro curiosità. Sono una professionista e come tale voglio essere considerata e trattata. Questo significa anche, signor ministro, che io non lavoro 18 ore, perché, quando torno a casa, leggo, studio, mi auto-aggiorno; preparo nuovi percorsi didattici e di approfondimento adeguati alle classi nelle quali mi trovo ad insegnare, che sono diverse ogni anno, e per le quali è prevista, proprio dal Suo Ministero, una programmazione ad hoc. Correggo i compiti, tanti compiti e non faccio test a crocette, "a risposta chiusa", per i quali la correzione richiederebbe meno tempo e fatica, perché ritengo che con quei test i ragazzi imparerebbero poco e la stessa valutazione non sarebbe adeguata, ma propongo quesiti a risposte aperte e saggi brevi. E quando correggo, non mi limito a fare segni rossi, ma suggerisco alternative corrette. Ha idea di quanto tempo ci voglia?

Io non sono un'eccezione tra i docenti della scuola italiana, perché, fortunatamente, le nostre scuole possono contare su una grande maggioranza di professionisti, che credono nel loro lavoro e lo svolgono con passione ed impegno: che lo praticano come Beruf.
Quanto all'aumento delle ore di insegnamento: Lei sa cosa significa insegnare, cioè svolgere attività didattica per lo più frontale o lezione guidata, perché non abbiamo altri strumenti a disposizione, per 24 ore alla settimana? Lo ha mai fatto? Le posso dire una cosa: ho svolto diversi lavori prima di incominciare ad insegnare e nulla è più faticoso che guidare un gruppo di alunni sulla strada della conoscenza, del sapere. E' una fatica fisica e mentale. E quello che affermo non ha niente a che vedere con il problema della disciplina, con il fatto di dover alzare la voce per farsi ascoltare: un problema che non ho mai avuto, neppure quando svolgevo supplenze temporanee o insegnavo nella scuola secondaria di primo grado a ragazzini più piccoli. 

E a proposito di standard europei, signor Ministro, mi fa piacere informarLa che a Skive, e nelle altre scuole danesi che ho visitato, i miei colleghi non solo non hanno cattedre di formica verde, ma hanno un piccolo studio dove possono fermarsi, nelle ore libere tra un impegno e l'altro, e correggere compiti, studiare, riposarsi. Hanno in dotazione computer; hanno sale-professori attrezzate con cucine, salottini con tavolini e divani, distributori gratuiti di bevande calde e fredde. Vuole venire a Pistoia, signor ministro, a vedere che cosa ho a disposizione io, nella mia scuola, quando devo restare intere giornate, perché ho riunioni pomeridiane, e non posso rientrare a casa, non tanto perché la mia abitazione dista 40 km dalla scuola, ma perché il servizio di trasporti regionale è talmente disastroso sulla linea Firenze-Pistoia, che sono costretta a trascorrere intere giornate fuori casa?

Venga, e le mostrerò volentieri la sala-professori, i bagni per gli insegnanti e, se vorrà vederli, anche quelli per gli studenti; se viene quando il freddo sarà arrivato, si copra bene, perché lo scorso anno, a gennaio, per diversi giorni, la temperatura, nelle aule, non superava i 10°. Le mostrerò volentieri le lavagne di ardesia, dove tento di presentare mappe concettuali con gessi talmente scadenti che le cimose polverose non riescono a cancellare i segni. Le mostrerò le poche aule che hanno carte geografiche degne di un mercato del modernariato e quelle invece ancora più spoglie, dove, però, può darsi che penzoli un crocifisso privo di una gamba o di un braccio.
Lei afferma che i soldi risparmiati aumentando le nostre ore di lezione, cioè impiegando meno personale docente e aggravando le difficoltà di una scuola già stremata, verranno investiti in futuro per creare scuole di standard europeo. Non le credo. Sono false promesse e pure offensive per chi nella scuola pubblica lavora e per chi crede nella sua funzione e importanza. Se quella fosse stata la Sua intenzione e l'intenzione del Suo governo, avreste dovuto cominciare perlomeno a darci dei segnali nel corso di questi mesi: non solo questi segnali non ci sono stati, ma quelli che abbiamo visto e vediamo vanno in direzione opposta: l'affossamento e la distruzione della scuola pubblica (per non parlare dell'università).
Il demagogismo non mi attira, né mi attraggono le pulsioni anti-casta. Eppure, signor Ministro mi sento di dirLe che Lei, come molti uomini e donne che hanno responsabilità politiche, siete, parafrasando il titolo di un bel libro di Marco Belpoliti, "senza vergogna": ed è ora, invece, che la vergogna venga riscoperta come virtù civile, e diventi il fondamento di un'etica pubblica, per un Paese, la cui stragrande maggioranza di cittadini e di non-cittadini non merita di essere rappresentata e guidata da una classe politica e "tecnica", ammesso che questa parola abbia un senso, weberianamente miope, non lungimirante, sostanzialmente incapace di pensare all'interesse pubblico e di agire per esso.
Domani sarò in pazza, signor ministro, a gridare con la poca voce che ho la richiesta delle Sue dimissioni! Antonietta Brillante 




28 maggio 2012


                                                                                                         Al Presidente della Repubblica
                                                                                                         Giorgio NAPOLITANO

                                                                                                Al  Presidente del Consiglio dei Ministri
                                                                                                         Mario MONTI


                                                                        Lettera aperta

Cari Presidenti,

non sono nuova, insieme alle mie consorelle, a dare voce a quanto vibra dentro il mio e nostro cuore attraverso la modalità di una Lettera aperta che per noi, come cittadine  e religiose, assume un significato di sincera partecipazione e di vera democrazia.
Viviamo in uno scenario “triste e oscuro”, usando le parole del Santo Padre, Benedetto XVI; un tempo di grave crisi che sta soffocando le speranze nel cuore di troppi giovani, che sta calpestando diritti e dignità nella vita di tante persone, di tante famiglie, di tanti bambini, di anziani e in particolare di tutte quelle realtà che avrebbero necessariamente bisogno di un sostegno e di una vicinanza per continuare a vivere con dignità.  
Ma guai a noi vivere questo triste e oscuro tempo in maniera passiva, da rassegnati e tanto meno nell’indifferenza o ancor peggio lasciandoci vincere da imperanti e devastanti egoismi che rischiano di alimentare forme deprecabili di aggressività e di violenza.
Guai a noi se in questo tempo non sappiamo esserci e lasciare la nostra impronta che porta con sé i lineamenti della giustizia, i calli della vita e il vigore della speranza.

Oggi, all’indomani della grande festa di Pentecoste, una Parola ha squarciato il mio cuore: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio… ma nulla è impossibile a Dio(Mc 10, 17 ss.).  Parole queste, dette da Gesù a un giovane ricco, impeccabile nell’osservanza religiosa e nell’obbedienza alla legge. “Quanto è difficile….”
Spontanea in me la trasposizione di quel “quanto è difficile…” a quella ‘innumerevole’ schiera  di persone che hanno oggi ruoli istituzionali di potere, a vari livelli, che garantiscono loro ricchezze e privilegi, e questo non per sollevare unicamente critiche, né per decretare giudizi o condanne, ma perché sento unicamente la forza di verità in quella Parola di Gesù.


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Comunità Rut – Suore Orsoline scm  ∙ Corso Trieste, 192  ∙ 81100 Caserta ∙ Tel/Fax 0823/278078∙  e-mail: rut@orsolinescm.it



Cari Presidenti, grazie all’attività di Casa Rut (accoglienza di giovani donne migranti, spesso con figli, vittime di tratta) e al nostro servizio svolto con sempre rinnovata passione, ho la possibilità di girare l’Italia per incontri, convegni, tavole rotonde e di incontrare così studenti, giovani, cittadini, associazioni, religiose e religiosi e in tutti colgo un grande disagio e una viva sofferenza, ma spesso anche una palpitante rabbia nei confronti di queste persone, sempre troppe, che si sono arricchite e che continuano ad arricchirsi in nome di un servizio svolto per il bene della collettività.  E non vogliamo qui giudicare lo stile e la qualità del servizio da loro svolto e ‘non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio’, anche se è sotto gli occhi di tutti che il più delle volte è un servizio ripiegato a coltivare unicamente gli interessi personali. Di fronte a questo grande senso collettivo di smarrimento e di indignazione diventano allora inaccettabili, vergognose e offensive nei riguardi della moltitudine di cittadine e cittadini e in particolare dei più disagiati, certi stipendi, certe indennità, certe pensioni e i loro tanti privilegi.  

Cari Presidenti, se non si trova il coraggio di tagliare con decisone quei stipendi e altro, se non si ha l’ardire di fare una rigorosa pulizia di certi privilegi che si diramano come le catene di S. Antonio, se non si osa anche la restituzione di beni e di ricchezze accumulate ingiustamente (come si fa per i beni confiscati alle mafie), difficilmente l’azione di Governo, pur encomiabile nel suo sforzo e impegno, diventa credibile e capace di dare nuovo senso e vigore all’unità nazionale unica strada percorribile per dare, oggi, risultati positivi. Solo insieme, nella giusta solidarietà, si può attraversare questo tempo “triste e oscuro”.
Cari Presidenti osate la giustizia, perché non c’è vera giustizia se si ‘divide la torta amara dei sacrifici, in parti uguali tra diseguali’ (don Milani). Chi oggi ha ricchezze e beni, spesso non per suo merito, ha il grave e responsabile dovere di contribuire largamente e secondo giustizia al risanamento e al rilancio del nostro Paese.  “Ma quanto è difficile… “
La solidarietà, la ricerca e l’amore al bene comune e la giustizia vanno osate, organizzate e, quando serve, promulgate in Leggi, anche se queste possono essere scomode. Solo così possiamo trasmettere e consegnare ai giovani una vera testimonianza di unità, di dignità e di vera umanità  che affonda le sue radici e riceve linfa dai grandi valori, sempre nuovi e attuali, enunciati nella nostra Carta Costituzionale e, per un cristiano, anche e soprattutto nella continua novità che è il Vangelo di Gesù Cristo.

Il grande S. Agostino diceva che “la speranza ha due bei figli: la rabbia e il coraggio. La rabbia nel vedere come vanno le cose e il coraggio di intravedere come potrebbero andare”.
Se è così e solo così, cari Presidenti, possiamo e vogliamo essere con voi per osare e dare un volto concreto e di luce alla speranza e ‘insieme aiutare Dio a rendere possibile l’impossibile’.   
E Dio sa quanta sete di speranza c’è oggi in tutti noi e nella nostra Italia, anche a partire dagli  ultimi drammatici avvenimenti accaduti che attendono risposte di vita e non solo promesse.  

Un cordiale saluto.                                                                 Suor Rita Giaretta
                                                                                             e sorelle Comunità Rut


* Nella speranza di fare cosa gradita allego il nostro secondo libro “Osare la Speranza – La liberazione viene  dal Sud”

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Comunità Rut – Suore Orsoline scm  ∙ Corso Trieste, 192  ∙ 81100 Caserta ∙ Tel/Fax 0823/278078∙  e-mail: rut@orsolinescm.it






15 giugno 2011


stamattina mi è capitato di vedere questo video ... 
è un video che va visto e ... fatto anche girare ... perchè l'Italia peggiore di cui Brunetta parla è unicamente la sua ... quella di un potere autoreferente che sa - solo - parlare senza voler o saper ascoltare ...
Questo modo di porsi - e di pensare - è per me l'embrione del concetto di abuso di potere
e di fronte a questo tipo di classe dirigente
Rinuncio a pensare ad un potere che faccia propria l'idea di  "servizio" ai cittadini i quali delegano potere  perchè venga usato per la promozione del bene comune
Rinuncio a pensare ad un rispetto che debba attraversare ogni rapporto umano al di là dei titoli o delle qualifiche (in tempo di web bisognerebbe che tutta la classe dirigente  impari a ri-scoprire la pariteticità  .... )
Rinuncio al dare x assunta l'idea che siano proprio le realtà più critiche quelle che dovrebbero stare maggiormente a cuore a chi governi. Anzi che si dovrebbe governare al solo scopo di ridurle, risolverle, contenerle, supportarle ...

 ... ma non rinuncio all'idea che l'esercizio di un qualsivoglia potere comporti
IL DOVERE di ascoltare chiunque con quel potere abbia a che fare ....

Uno Stato di diritti è prima di tutto uno Stato di doveri.

buona indignata giornata a tutti ....


16 novembre 2011

“ … ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo … come lacrime nella pioggia.
È tempo … di morire.
» (dal film Blade Runner)
Davanti alle immagini della manifestazione di ieri … mi sono ritrovata a evocare come profetiche … le parole di un notissimo film di fantascienza … e mi sono chiesta: sarà normale?
No!
Non è normale (e non è bene) che la violenza attraversi - come una scarica elettrica -  il corpo innocente di una manifestazione assolutamente pacifica …
Una manifestazione la cui ragion d’essere – “l’ indignazione per la perdita dei diritti per mano dell’alleanza di grandi multinazionali e classe politica” -  perfino Mario Draghi ha ritenuto legittima: “”Se siamo arrabbiati noi per la crisi, figuriamoci loro che sono giovani, che hanno venti o trent’anni e sono senza prospettive”.
Chi può trarre vantaggio dalle violenze di ieri?
Non c’è bisogno di intervistare politologi, sociologi, esperti eccellenti … mi permetto – da banale cittadina – di rispondere io!
Il vantaggio è solo per chi questa situazione economica mondiale l’ha causata. E’ un grandissimo vantaggio. Confondere le forme – fino a farle prevalere – sui contenuti.
Spostare le responsabilità e l’attenzione. Spegnere il dissenso e delegittimare ogni voce. Quante volte da adolescente, quando litigavo con i miei mi sono sentita dire: chi urla ha sempre torto ! … comodo …. molto comodo …
Oggi, madre di adolescenti, credo fermamente che urlare sia sbagliato … ma di fronte a chi urli … non riesco a non interrogarmi … sui perché ….
C’è l’urlo ottuso di chi non ha ragioni da offrire … ma c’è anche l’urlo di dolore di chi ha subito un torto, un’offesa, un danno … una violenza  ….
Ieri hanno parlato gli incendi, le manganellate, le fughe, la distruzione (da condannare senza se o ma!) … ed  hanno totalmente taciuto i contenuti che quella manifestazione – globale e civile – aveva generato: “Le manifestazioni sono contro quattro poteri: sistema finanziario nella sua globalità di paradisi fiscali, sistema bancario e agenzie di rating,  potere politico, dove i dirigenti sono lontani anni luce dalla gente, potere militare, dagli eserciti alla Nato. E potere dei media composti dai grandi gruppi editoriali e i gestori di internet” (dal sito degli Indignados spagnoli)
Sto scrivendo – non so bene neanche a chi – per denunciare proprio un ultimo grande potere: il silenzio.
Non è più tempo di tacere. La complicità del buon senso è ormai troppa.
E’ stato detto  - anche dallo stesso Draghi – che solo rimanendo pacifici questi manifestanti avrebbero avuto credito per essere ascoltati.
Ma ascoltare è un’arte che presuppone rispetto, correttezza, costruttività e interesse. Presuppone infine la possibilità di scoprire – ascoltando – molte responsabilità. Responsabilità di cui si dovrebbe poi dar conto.
Onestamente non vedo nella classe dirigente di questo Paese (che scrivo con la maiuscola ma penso con la minuscola) nessuna di queste virtù. Non le vedo e non le ho viste nelle reazioni di Brunetta di fronte ai precari, della Gelmini di fronte agli studenti, di Calderoli di fronte ai migranti … di Berlusconi di fronte a tutti i cittadini italiani …
Non le vedo più …
Non le vedo più … in chi dovrebbe guidare l’economia, l’amministrazione, la finanza,  la cosa pubblica … ma non le vedo più neanche in chi dovrebbe guidare la cosa … spirituale …
Questa Chiesa che riesce a denunciare comportamenti indecorosi, ignominiosi, indecenti … illegittimi … dopo anni in cui è stata ad osservarli mi ha indignata (l’ho scritto!) quasi più di quanto avrebbe potuto farmi indignare …. tacendo.
Se avesse taciuto mi sarei detta: una scelta di misericordia totale … scelta opinabile … ma con una sua evangelica logica interna ….
Ma parlare dopo anni … non può non far pensare: queste denunce perché non sono state fatte subito?  cosa ha motivato un silenzio tanto lungo? come non leggervi una complicità?
… Ma chi, chi,  vedendo i propri figli comportarsi male aspetterebbe anni prima di dire: mio caro così non si fa, è sbagliato ! … Più che lecito da parte dei figli allora dire: se non si fa, potevi dirlo subito … perché hai lasciato che continuassi? Il tuo silenzio ed il mio agire … sono ormai una cosa sola …
Ho visto cose che pensavo appartenessero solo alla fantascienza … e non riesco più a vedere  diritti, doveri, responsabilità, solidarietà, servizio, libertà di parola, pensiero, manifestazione  … cose che – per noi umani – un tempo erano … realtà!
Gaia: gaiaevito@yahoo.it,


Qualche giorno fa un’amica di Fatti Mail mi ha inviato un articolo di Aldo Maria Valli in cui venivano riportati brani di un discorso del Cardinal Marini del 1999 in merito all’accidia politica.
Un lungo discorso che meriterebbe di essere riletto tutto
Lascio – a chi abbia voglia di leggere – alcuni passi di quel testo :

“ … quali paure abitino di fatto il nostro tempo e richiedano il nostro coraggioso impegno per scongiurarle. Di una di queste cose temibili vorrei parlare in particolare. Si tratta di un male oscuro, difficile da nominare, forse anche perché è difficile da riconoscere, come un virus latente eppure onnipresente. Potremmo chiamarlo col nome di "pubblica accidia" o di "accidia politica". E' il contrario di quella che la tradizione classica greca, come pure il Nuovo Testamento chiamano parresia, libertà di chiamare le cose con il proprio nome. Si tratta di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha come conseguenza un decadimento della sapienzialità politica. Stiamo di fronte a questo male quando, ad un atteggiamento di valutazione responsabile e impegnata delle diverse proposte culturali presenti nel nostro mondo occidentale, si sostituisce un aprioristico giudizio di equivalenza formale di ogni progetto o comportamento e quindi la semplice presa d'atto di una diversità di valutazioni etiche … Accade così che ci si limiti a esigere rispetto per la propria opinione, senza impegnarsi a declinare le ragioni per cui quel rispetto vada concesso. In altre parole il rispetto assoluto dovuto a ogni persona viene confuso con l'attribuzione aprioristica di una valenza e di una sensatezza identica a qualunque tipo di proposta. Si ha dunque l'impressione che la proclamazione del valore del diritto individuale non sia avanzata per garantire pari opportunità di confronto per le motivazioni di tutte le proposte, ma solo per delegittimare la possibilità e la serietà del confronto e una possibile soluzione culturale determinata. Riferendomi al testo di Isaia 11, che esprime le qualità del buon governo, siamo qui di fronte a un sistema di pensiero che non privilegia né sapienza, né intelletto, né consiglio, che confonde la fortezza col semplice consenso di massa, che relega la scienza e la pietas in settori incapaci di influire sulla ricerca del meglio … Se tutte le posizioni etiche sono equiparate indiscriminatamente, è inevitabile che finisca col prevalere la posizione che suona immediatamente più facile, più piacevole al momento e meno impegnativa. Non è più una società "bella e buona", quella a cui si tende, ma una convivenza fiacca, opaca, frammentata, una società senza forma. Da questo atteggiamento deriva anche la difficoltà di tenere insieme le maggioranze, quando cioè non si condivida un ordine gerarchico delle ragioni della coesione, quando manchi la volontà progettuale di accettare le gradualità per le proprie richieste, quando il mattone che ciascuno dovrebbe portare alla costruzione diventa il sasso lanciato senza preoccuparsi della sua insensibilità nel progetto, quando alla logica della casa comune si sostituisce l'umoralità o il risentimento, quando si cerca la brillantezza della battuta e la persuasività dello slogan più che la fatica della riflessione oggettiva che mira a convincere. Normalmente lo scadimento etico della politica, in un corpo sano, dovrebbe essere rilevato e punito da un calo di consenso. Già Aristotele aveva formulato il principio secondo cui il male è destinato a distruggersi da sé perché "le persone disoneste non possono essere concordi se non in piccola parte, e così neppure possono essere amiche, perché aspirano ad avere di più nel campo delle utilità e si sottraggono invece alle fatiche e al servizio; e ciascuno volendo per sé questi vantaggi, sta a controllare il vicino e a ostacolarlo... Quindi si verificano tra loro dissensi, perché l'uno cerca di costringere l';altro e nessuno vuole agire con giustizia". Ma sembra non essere più così. Se si prescinde dal preoccupante aumento delle astensioni nelle tornate elettorali, si ha l'impressione che il degrado etico della politica non sia punito consequenzialmente, almeno in tempi brevi. Infatti, a stravolgere il meccanismo sano di autopunizione, interviene, oltre al dato culturale della frammentazione individualistica, il peso della comunicazione politica, mai tanto rilevante come nel nostro tempo, nel quale mancano o sono indeboliti gli organismi di filtro societari per la creazione di una pubblica opinione. Solo l'esistenza di solide strutture societarie e comunitarie consentirebbe di stabilire, oltre che una rete umana di rapporti, anche criteri di valutazione e una opinione pubblica in senso vero e proprio. Laddove invece queste strutture mancano o sono deboli, la comunicazione non trova un tessuto etico pronto ad accoglierla con senso critico. Trova una serie di individui con i loro interessi particolari e più in generale trova quell'insieme indistinto che viene chiamato "la gente" e che non è in grado di opporre una resistenza condivisa e critica. “



Ripartire dal significato delle parole: Gratitudine

“l’homo technicus-oeconomicus crede, a modo suo, di bastare a se stesso. Arrogante, demiurgo, auto soddisfatto, si sfrega le mani, dispone di tutto ciò che il pianeta gli offre, si arroga tutti i diritti, ignora i propri doveri, taglia i legami che lo uniscono agli altri esseri umani, alla natura, alla storia ed al cosmo. Spinge talmente in là l’emancipazione che corre il rischio di strappare tutti i fili e di sganciare, di sganciarsi, di auto-espellersi dalla creazione. La sua ideologia è talmente semplicistica che un qualunque fondamentalismo religioso sembra in paragone sottile e pluralistico. Un solo precetto, una sola legge, un solo parametro, un solo campione: il rendimento! Come esprimere meglio la trivialità criminale di un ordine unico?Come non vedere che ogni contributo sottratto alla cultura ed all’educazione dovrà venire moltiplicato per 100 per rimettere in sesto i servizi sanitari, l’aiuto sociale e la sicurezza pubblica? Senza conoscenza, infatti, senza visione e senza fertilità d’immaginazione ogni società sprofonda presto o tardi nel non-senso e nel’aggressione.
Esiste un potente antidoto a questo macabro gioco, a portata di mano, in ogni istante: la gratitudine.
Essa soltanto sospende la nostra avida corsa. Essa rivela che tutto è dono e per di più dono immeritato. Non perché ne saremmo, secondo un’ottica moraleggiante, indegni, ma perché il nostro merito non sarà mai abbastanza grande per controbilanciare la generosità della vita! Il pittore Turner si faceva rinchiudere per giorni interi nell’oscurità completa della sua cantina per vivere nel momento della sua liberazione, lo splendido shock del giorno e dei colori. Si può tuttavia dire che avesse meritato gli occhi?
Alla sovrabbondanza generosa della creazione noi rispondiamo con una rapacità subdola. La Vita ci offre in abbondanza ciò che il nostro sistema economico le ha strappato con l’astuzia e l’aggressione manipolatrici.
Esiste una domanda che quando la si pone dà le vertigini: che cos’hai tu che non abbia ricevuto in dono?
Se giro lo sguardo intorno a me, devo presto o tardi riconoscere che ci sono poche cose che non ho ricevuto in dono: la terra su cui cammino, l’aria che respiro, di chi sono? La lingua che parlo, di chi è? Le conoscenze che ho raggranellato, che ho potuto credere mie? La mano che guida la mia penna? Il corpo generosamente dato in prestito per qualche tempo? Domanda un padre della chiesa “non c’è nulla che tu non abbia ricevuto. Allora perché gloriartene?” (Christiane Singer)


Coltivare  sani dubbi:
Un’altra linea di confine da stabilire è quella tra l’etica del dubbio e l’etica dello scambio. La globalizzazione ha tanti vantaggi e tanti svantaggi. Uno degli svantaggi è che fa fare molta strada al principio dello scambio, cioè all’idea che tutto possa essere comprato e venduto. Se guardate internet c’è di tutto: c’è un sito per suicidarsi, ci sono ventidue modi per suicidarsi, non si spiega perché uno dovrebbe suicidarsi, ma ci sono ventidue modi esemplificati. Si trova di tutto, buono o cattivo che sia, per cui si può vendere o comprare di tutto. E’ l’etica dello scambio che produce un effetto disastroso soprattutto per i poveri, perché chi non ha nulla da scambiare, quando prevale la logica dello scambio, che cosa può mettere sul tavolo? Il suo corpo, non ha altro che quello. L’etica dello scambio è un’etica della certezza apparente. Si paga, si compra, si vende: tutto semplice. Io penso che molte cose si possano scambiare, che molte cose si possano comprare e vendere, che su molte cose si possa cedere, però penso anche che ciascuno di noi deve avere qualcosa che non si compra e non si vende. Allora, se il dubbio ha un senso, il dubbio deve avere anche un limite. E’ il limite che ciascuno di noi deve costruire dentro di se, costruito dai valori che non si comprano e non si vendono. E poi c’è un altro elemento che deve guidarci per trovare i confini del dubbio ed è l’elemento della gratuità, come grande strumento di alternativa allo scambio. Nella vita di ciascuno di noi credo che ci debba essere qualcosa che non si compra e non si vende, ci deve essere qualche momento di gratuità: fai qualche cosa non perché c’è qualcosa in contropartita, ma perché devi farla sulla base di quel valore che non si compra e non si vende. Questa è la gratuità necessaria. E’ importante poi riflettere su un punto: molto spesso si ritiene che ci sia sempre coincidenza tra certezza e verità. Il contrario del dubbio è la certezza; a volte si pensa che la certezza sia sinonimo di verità, ma non è vero. Quante certezze nella storia dei popoli, delle nazioni, sono state terribili menzogne!” (L. Violente - L. Verdi) 




SOLO IO CHIEDERO'


Solo io chiederò
che la guerra non mi lasci indifferente
è un mostro grande e si divora 
la povera innocenza della gente

Solo io chiederò 
che il dolore non mi lasci indifferente
e che la Porca Morte non m'incontri
prima che queste parole siano spente

Solo io chiederò 
l'ingiustizia non mi lasci indifferente
non voglio mai più porger l'altra guancia
ed il cielo non ci ha mai donato niente

Solo io chiederò
che la rabbia non mi esca dalla mente
che chi è poi un bastardo non m'incanti
col sorriso che nasconde il niente

Solo io chiederò 
che il passato non sia mai dimenticato
e non si cancelli la memoria
dell'arroganza che ci ha sempre calpestato

E ancora chiederò
che il futuro non mi trovi diffidente
c'è ancora tanto da inventare 
per costruire una cultura differente

c'è ancora tanto da inventare 
per costruire una cultura differente (Mercedes Sosa)


























mi chiamo Futuro ... tu come ti chiami ?

mi chiamo Futuro ... tu come ti chiami ?
Dio mi liberi dalla saggezza che non piange, dalla filosofia che non ride e dall'orgoglio che non s'inchina davanti ad un bambino" (K. Gibran)

LENTE D'INGRANDIMENTO - CITTADINANZA ATTIVA

COALIZIONE PER I BENI COMUNI:

Un’ampia delegazione della Coalizione per i Beni Comuni, ha depositato, presso gli uffici competenti del Comune di Roma, la proposta di delibera popolare per l’approvazione del regolamento per la gestione condivisa beni comuni.

Una rete informale di cittadinanza attiva – composta da 104 realtà romane - nata con l’obiettivo di presentare al Comune di Roma una Delibera di Iniziativa Popolare per l’approvazione di un “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura, la rigenerazione e la gestione in forma condivisa dei beni comuni urbani” finalizzato non solo a definire i rapporti tra le amministrazioni locali e quanti vogliono offrire il proprio contributo volontario per la cura, la rigenerazione e la gestione dei beni comuni urbani, ma anche ad attivare nuove forme di collaborazione tra le parti, basate sul principio di sussidiarietà orizzontale e non sulla totale delega di responsabilità ai cittadini.

Questo l’obiettivo scaturito dalle 104 realtà romane che, con la consegna della proposta di delibera popolare, danno il via ufficiale alla RACCOLTA DELLE 5.000 FIRME valide necessarie per essere discussa in Consiglio.

Una rete informale che continuerà a crescere e a coinvolgere gruppi organizzati e non, comitati, associazioni e cittadini fino al raggiungimento dell’obiettivo: l’approvazione del “Regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura, la rigenerazione e la gestione in forma condivisa dei beni comuni”, per il benessere collettivo e il miglior utilizzo anche dal punto di vista dei bambini.

Una raccolta firme che avrà non solo l’importante compito di dotare anche Roma di uno strumento che avvicina cittadini e istituzioni, ma anche quello di sensibilizzare e informare le persone sulla sua importanza strategica

FACEBOOK

https://www.facebook.com/coalizioneperibenicomuni/


coalizioneperibenicomuni@gmail.com

389 5826326 - 3386587734

FORSE NON TUTTI SANNO CHE:

1) Mangiare, Dormire, Lavarsi ... è x tutti
sul sito della Comunità di S. Egidio è possibile "sfogliare" guide solidali che informano sulle realtà CITTADINE disponibili a sostenere chi si trovi in difficoltà

http://www.santegidio.org/index.php?&pageID=228


SOLIDARIETA' E AMBIENTE

ACQUA, un popolo di spreconi

ACQUA, un popolo di spreconi

Un popolo di spreconi.

Ne consumiamo ogni giorno più di 250 litri a testa, più di ogni altra nazione europea.

Non siamo i più puliti, ma solo i più spreconi.



Ogni giorno utilizziamo centinaia di litri d’acqua senza prestare molta attenzione; in genere l’atteggiamento più diffuso è quello di pensare che «basta aprire un rubinetto e servirsene a piacere», in realtà le cose non stanno proprio così, è necessario fermarsi a riflettere un attimo per dare il giusto valore ad una risorsa che purtroppo non è infinita.

Senza acqua nessuna forma di vita è possibile, è un bene d’assoluta necessità che diventa sempre più scarso con il passare del tempo per motivi sia di ordine quantitativi (l’acqua oggi a disposizione è pari a circa un terzo di quella disponibile negli anni ‘50 e tra cinquanta anni sarà ulteriormente dimezzata), sia qualitativi (per ogni litro d’acqua potabile, almeno otto risultano contaminati dall’attività umana).

Gli effetti di questa situazione sono sotto gli occhi di tutti: casi crescenti di razionamento idrico; il consumo di acqua minerale o filtrata diventato quasi un obbligo; lievitazione del costo dell’acqua potabile ecc.

Se poi allarghiamo lo sguardo a livello mondiale, il panorama diventa ancora più preoccupante: circa un miliardo e mezzo di persone non dispongono di acqua potabile.

Di fronte ad un quadro tutt’altro che roseo, oltre ad avvicinarsi al rubinetto con maggiore rispetto, diventa importante porsi il problema di come contribuire in prima persona a migliorare la situazione.

D’altra parte, un uso più appropriato dell’acqua non fa bene solo all’ambiente, ma anche al portafogli e con molta probabilità anche alla pace tra i popoli, perché sono oramai numerosi gli analisti politici che individuano nella carenza d’acqua uno dei possibili motivi di conflitto armato tra i paesi.

Che fare?

Per eliminare gli sprechi idrici si può agire su tre fronti: -Ridurre i consumi d’acqua, in modo da erodere il meno possibile questa preziosa risorsa e contrarre l’impatto ambientale (produrre, trasportare e smaltire acqua potabile richiede energia e produce inquinamento). -Contrarre l’impiego di additivi per ridurre l’inquinamento dell’acqua, della natura e dell’ambiente domestico. -Diminuire il consumo energetico per scaldare e distribuire l’acqua al fine di ridurre l’inquinamento ambientale e il consumo di energia fossile. Per raggiungere questi obiettivi è necessario intervenire sia a livello degli stili di vita, modificando alcune abitudini radicate nel tempo, sia a livello di impiantistica, utilizzando apparecchiature progettate con particolare attenzione al risparmio idrico ed energetico per garantire un’efficacia uguale o superiore rispetto ai dispositivi convenzionali. Spesso si tratta di mettere mano al portafogli, ma il più delle volte il risparmio che deriva dall’uso di tali dispositivi ripaga in poco tempo la spesa affrontata per il loro acquisto. Il massimo dei risultati si ottiene quando entrambe queste strategie, cioè modifica delle abitudini e nuova impiantistica, sono adottate insieme. Vediamo ora in dettaglio le varie soluzion possibili.

Riduzione dei consumi

Iniziamo dalla tipologia di utilizzo che impatta maggiormente per poi passare alla seconda e così via prendendo come riferimento il diagram-ma a torta (vedi il grafico ripartizione dei consumi domestici), in altre parole guardiamolo con occhi famelici e gettiamoci a capofitto sulla fetta più grossa per poi passare a quella di dimensioni immediatamente inferiori e cosi via!

  • Docce e bagni.
  • La doccia presenta un minor consumo d’acqua, rispetto al bagno, soprattutto se si tiene l’acqua aperta solo quando serve.
    Inoltre è possibile adottare docce a risparmio energetico, in grado di ridurre i consumi oltre il 70%. In termini pratici, considerando una doc-cia al giorno si possono risparmiare in un anno oltre 50.000 litri d’acqua e diverse centinaia di euro.
    La cosa importante è di utilizzare docce che non si limitino a ridurre il consumo d’acqua (allora tanto vale non aprire totalmente il rubinetto, con il risultato che s’impiega più tempo a lavarsi e si consuma lo stesso quantitativo di acqua), ma sfruttino in maniera più intelligente l’acqua, garantendo un elevato potere lavante a fronte di minori consumi.
    Vi sono inoltre vantaggi secondari interessanti: nel caso di boiler elettrico, più persone riescono a fare la doccia consecutivamente e minori sono i cali di portata per gli altri utenti, l’unico rovescio della medaglia è che, passando meno acqua nei tubi, si deve attendere più tempo l’arrivo dell’acqua calda.

  • Lavaggio stoviglie e biancheria.
  • Nel caso in cui si utilizzino lavatrici o lavastoviglie è bene farle girare sempre a pieno carico; nel caso dei lavaggi a mano evitare l’uso d’acqua corrente e preferire l’acqua raccolta in un lavabo o in una bacinella.
    Sempre per ridurre gli sprechi, non lasciate diventare vecchio lo sporco dei piatti e le macchie ostiche dei tessuti perché richiedono un lavaggio più impegnativo sia da un punto di vista chimico (detersivi) sia energetico (tempi e temperature più elevate); lavare separatamente i pezzi a seconda del grado di sporco.
    Molti si chiederanno: si consuma più acqua, energia e detersivi lavando a mano o a macchina?
    Per rispondere in maniera corretta a questa domanda è necessario conoscere due fattori: grado di riempimento ed «economicità» della macchina da una parte e capacità di lavaggio manuale dall’altra.
    Comunque alcuni studi in materia hanno dimostrato che per lavare lo stesso quantitativo di stoviglie, pari ad un carico intero di una lavapiatti, mediamente si consumano 80 litri d’acqua se lavati a mano; 60 se lavati a macchina; 12 litri nel caso di apparecchi ad elevata efficienza, i quali oltre al risparmio d’acqua consentono una notevole contrazione dei consumi di detersivi ed energia.

  • Vaschette del WC.
  • Le vaschette tradizionali, in genere contengono circa 24 litri, un volume d’acqua tale da permettere una buona azione lavante nel caso di presenze solide…, ma eccessivamente elevata nel caso di rifiuti liquidi.
    Mediamente, con tali sciacquoni si ha un consumo giornaliero di circa 100 litri a persona, in gran parte sprecati.
    Più efficienti sono le vaschette a due mandate, una da 3 e l’altra da 6 litri, grazie alle quali il consumo giornaliero, a parità di funzione, scende a 15 litri d’acqua.
    Se utilizzate in maniera corretta, ossia schiacciando il tasto giusto al momento giusto, con le vaschette a doppia mandata si arriva a risparmiare circa 17.000 litri d’acqua l’anno a persona.
    Quando non si hanno a disposizione vaschette ad hoc, è possibile modificare i tradizionali cassonetti introducendo dei pesi che permettono di ottenere le stesse prestazioni.
    Un altro metodo è di inserire nella vaschetta un mattone o più semplicemente una bottiglia piena d’acqua.
    In quest’ultimo caso si risparmia molta acqua, ma si riduce anche la quantità disponibile per ogni scarico con l’inconveniente di ridurre l’azione lavante.

  • Rubinetti.
  • Vanno aperti solo quando serve e tenuti chiusi mentre ci si insapona o ci si lava i denti; analogamente per lavare la frutta e la verdura è sufficiente usare acqua raccolta in una bacinella e non quella corrente.
    Per dare un’idea concreta di quanto questi gesti quotidiani possano far variare notevolmente il livello dei consumi idrici, analizziamo in dettaglio cosa accade durante il lavaggio dei denti: tenendo aperto il rubinetto per tutto il periodo di pulizia, si arriva a consumare 10.000 litri l’anno a persona; quando il rubinetto viene aperto solo per il risciacquo il consumo d’acqua si riduce a 1600; se poi invece dell’acqua corrente si utilizza quella contenuta in un bicchiere, si arriva a non più di 200 litri d’acqua l’anno!
    Un bel risparmio, vero?
    Per quanto concerne interventi di tipo impiantistico, è possibile sostituire i normali filtrini dei rubinetti (quelli che ogni tanto dobbiamo pulire dal calcare e da altre sporcizie) con dei modelli risparmio energetico (aeratori).
    Come per le docce vale il discorso di acquistare dei modelli che non si limitino a ridurre la portata dell’acqua, ma che producano un getto di eguale capacità lavante con consumi inferiori.

  • Perdite dalle guarnizioni.
  • L’acqua, che a causa di perdite delle guarnizioni gocciola dai rubinetti o dallo sciacquone, sembra poca cosa, ma essendo continuativo, anche il semplice gocciolamento comporta uno spreco inutile di migliaia di litri d’acqua (e di euro).
    Nel caso in cui l’impianto è dotato di accumuli dell’acqua calda, come ad esempio i boiler elettrici, oltre al consumo d’acqua le perdite idriche si tramutano anche in uno spreco d’energia elettrica.
    È pertanto consigliabile di sostituire immediatamente le guarnizioni danneggiate.

  • Ridurre l’Impiego di Additivi
  • Tutti i detergenti, compresi quelli ecologici, comportano un impatto ambientale per la loro produzione, il trasporto e lo smaltimento.
    Inoltre, soprattutto nel caso di detergenti convenzionali, si ha una liberazione di residui tossici nell’ambiente che poi vengono assimilati attraverso la respirazione, la pelle e il consumo di alimenti.
    Ecco perché è bene ridurre al minimo l’impiego di detergenti e detersivi e in ogni caso preferire i prodotti ecologici.
    Ma cosa c’entrano i detersivi con l’acqua?
    È molto semplice: in tutti i processi di pulizia viene utilizzata l’acqua come diluente che, se usata in modo intelligente, riserva ottime sorprese!
    Per il lavaggio di stoviglie e del bucato è possibile trattare energicamente l’acqua con opportuni dispositivi da applicare direttamente alle condotte dell’acqua o direttamente nelle macchine da lavare o sotto forma di additivi, ottenendo circa un dimezzamento dei consumi dei detersivi.
    Per quanto concerne la pulizia delle superfici è consigliabile impiegare dei panni in microfibra dove l’azione chimica degli additivi è completamente sostituita dall’azione meccanica, ossia si pulisce e si sgrassa unicamente utilizzando l’acqua.
    Ma anche in questo caso, per non avere risultati deludenti, è necessario scegliere prodotti d’elevata qualità.

  • Combattere il Calcare
  • Il calcare è ben noto per la tendenza a creare incrostazioni, assai difficili da rimuovere da box doccia, lavelli e rubinetteria in generale; ma i maggiori inconvenienti, il calcare li crea all’interno dell’impianto idraulico, ossia nelle condutture e, soprattutto, nei generatori d’acqua calda (elettrici o a gas).
    Tali depositi creano due tipi di barriere: una termica e una fisica.
    La prima si traduce in un maggior consumo di energia per nulla trascurabile, infatti, per ogni millimetro di deposito di calcare nei tubi, si registra un aumento dei consumi elettrici di circa il 10% e siccome lo strato accumulato in un generatore d’acqua calda può diventare molto spesso, nel tempo, i consumi possono crescere vertiginosamente.
    Analogamente, lo strato di calcare crea anche una barriera fisica al passaggio dell’acqua che, nel caso d’impianto dotato di autoclave, fa anch’esso aumentare i consumi di elettricità.
    Infine va detto che il calcare sollecita maggiormente l’impianto idraulico riducendone la durata.
    Una verifica della presenza di calcare all’interno dei tubi può essere realizzata con una semplice prova.
    Aprite al massimo il rubinetto dell’acqua fredda e notate la portata; dopo qualche istante ripetete la stessa cosa con il rubinetto dell’acqua calda.
    La minore portata dell’acqua calda è essenzialmente dovuta alle incrostazioni di calcare presenti nel generatore di calore!
    Le soluzioni utili per vincere il calcare si dividono in due categorie: trattamenti in grado di inibire il potere di coesione del calcare che, pur continuando ad essere presente nell’acqua, non è più in grado di for-mare incrostazioni; trattamenti di rimozione del calcare dall’acqua.

Ecologia Domestica

Del primo gruppo fanno parte i trattamenti energetici dell’acqua, i catalizzatori ceramici e i campi magnetici.

I primi uniscono le proprietà anticalcare alla riduzione dei consumi di detersivi ed all’eliminazione del problema della formazione della ruggine (molti modelli possono essere installati senza ricorrere all’idraulico).

I catalizzatori ceramici sono estremamente efficaci, ma richiedono un intervento impiantistico così come i dispositivi basati sull’effetto dei campi magnetici.

Tra i dispositivi che operano la rimozione parziale del calcare dall’acqua vi sono gli addolcitori, il cui impiego richiede periodicamente l’aggiunta di sale e un’accurata manutenzione.
Inoltre, sia l’installazione che la manutenzione richiede l’intervento di tecnici specializzati.

SOLIDARIETA' E CONSUMI

L’economia solidale

è, prima di tutto, un atteggiamento da cui derivano dei comportamenti che determinano un particolare stile di vita. Non si tratta solo, infatti, di aderire alle formule del commercio equo solidale, ma anche, e soprattutto, di rivoluzionare le nostre abitudini quotidiane: l’economia solidale comprende anche il nostro modo di lavare e lavarsi, ossia la quantità e la qualità di acqua, sapone e detersivi che utilizziamo.

Partire, quindi, dalle piccole cose, dalle attività quotidiane che, alla fin fine, costituiscono, in termini di tempo d’esecuzione, una porzione molto ampia di ogni nostra giornata. Limitare i consumi, specie d’acqua, evitare gli sprechi, cooperare con gli altri, sostituire la moda dell’ “usa e getta” con quella del recupero, utilizzare prodotti ecocompatibili, utilizzare l’automobile solo in casi di estrema necessità, impegnarsi a non inquinare, scambiare (tipo libri, cd, attrezzi, ecc.) per evitare di acquistare, sono alcuni imperativi per uno stile di vita un po’ più sobrio.

Zucchero equo-solidale

La nostra società si basa su un flusso continuo di merci e prodotti, e per questo viene definita consumistica. E, certamente, per cambiare le cose occorre intervenire (interferire) su questi automatismi.

Potremmo abbozzare una sorta di decalogo: compra leggero (ovvero prodotti con uno “zaino ecologico” non troppo pesante); compra durevole; compra semplice (in genere, gli oggetti più sofisticati sono meno durevoli, più delicati); compra vicino (per ridurre i danni ambientali che ogni trasporto comporta); compra sano; compra più giusto (e qui ci avviciniamo al discorso del commercio equo); compra prudente (a dispetto di normative e regolamentazioni, non è detto che il materiale acquistato non sia nocivo); compra sincero (evitare cioè i prodotti troppo pubblicizzati, dato che la pubblicità ce la paghiamo noi ed è spesso lontana dalla verità); compra mano d’opera (un metodo per aumentare l’occupazione); investi in futuro

INDIRIZZI UTILI

http://www.retelilliput.org/

http://www.utopie.it/http://www.retecosol.org/

http://www.networketico.it/

http://www.volint.it/http://www.zoes.it/

http://www.vita.it/

http://www.nuovomunicipio.org/

http://www.decrescita.it/

http://www.equonomia.it/

http://www.altreconomia.it/

http://www.altroconsumo.it/

http://www.valori.it/



COMMERCIO EQUO SOLIDALE

http://www.assobdm.it/

http://www.altromercato.it/

http://www.equoland.it/

http://www.transfair.it/

http://www.agices.org/

http://www.commercioetico.it/

http://www.equo.it/

http://www.mondosolidale.it/

http://www.cooperativaisola.org/

http://www.equociqua.it/

GAS

http://www.economia-solidale.org/

http://www.retegas.org/



FINANZA ETICA

http://www.bancaetica.com/

http://www.finanza-etica.itt/



TURISMO RESPONSABILE

http://www.aitr.org/

http://www.tures.it/

http://www.viaggiemiraggi.org/

http://www.viaggisolidali.it/

http://www.humanaitalia.org/



BARATTO

http://www.eticambio.it/

http://www.zerorelativo.it/

http://www.barattopoli.com/

http://www.tuttobaratto.it/

http://www.suesu.it/

da Fatti Mail a ... Song-Taaba ONLUS - Africa e Solidarietà

da Fatti Mail, da una mail spedita per chiedere una mano per il Burkina Faso, l'incontro con Padre Jean Ilboudo e la nascita, nel 2008, di Song-Taaba ONLUS.... Song-Taaba incontra Chiara Castellani, il suo Congo ed inizia un'esperienza umana di amicizia e solidarietà ... di conoscenza e consapevolezza ... che fa compiere ogni giorno nuovi passi ... guardando avanti ...

"A salvare veramente l’Africa non saranno i fondi e gli aiuti. Salveranno vite umane, permettendo loro di sopravvivere, ma non salveranno la vita dell’Africa. Cio’ che importa non sono i mezzi, ma le condizioni. Bisogna permettere all’Africa di ricostruirsi. Bisogna aiutarla a ricostruirsi. L’Africa deve essere prima che avere". (Joseph Ki-Zerbo)

L'Africa deve essere prima che avere ...

e come l'Africa, ognuno di noi

La strada dell'essere è quella i cui passi sono domande e la meta non è un dove ma un chi ...

Una strada che lo sguardo lungo e visionario di Padre Jean Ilboudo ha fatto intravedere a tutti noi

Song-Taaba è e vuole essere questo: la possibilità di percorrere questa strada

http://song-taabaonlus.ning.com/

Be Ye Ka Ye?: cosa c'è lì che non c'è qui?

Nulla o forse tutto: la voglia di muoversi, di interrogarsi,
di cercare il valore della vita ...

http://www.youtube.com/watch?v=WQGF1fqEruQ

la vita di Chiara Castellani

http://www.youtube.com/watch?v=HON6FoFUPnI

e di chiunque abbia voglia di vivere la solidarietà ...
se sei fra questi ... contatta:
segreteria@song-taabaonlus.org,


.... x iniziare a guardare l'Africa dal ... lato giusto:
Nel suo docu-film, Silvestro Montanaro, svela un'Africa
consapevole, dignitosa, aperta al futuro, segnata da ferite interne ed esterne,
creativa, saggia. Un' Africa da ascoltare, da capire, da scoprire e da cui
imparare:
http://www.ceraunavolta.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-5a587b72-ded6-4320-942f-572599d3406c.html,